Quando ci si avvicina alla storia della fotografia, sono essenzialmente due gli aspetti da tenere presenti . Il primo è di carattere tecnico: fino agli inizi del XX Secolo la storia di quest’arte, infatti, non può disgiungersi dalla storia e dai progressi delle tecniche e dei materiali in quanto sono assolutamente vincolanti per i risultati, tanto che spesso, fototipi di epoca ottocentesca sono valutati più per il medium che per l’immagine. Il secondo aspetto è, invece, di carattere estetico: la fotografia ha sempre avuto un rapporto molto contrastato con la pittura, dal confronto con la quale non è mai riuscita a liberarsi, sia che la si ritenesse serva sia che la si considerasse forma d’arte superiore, tanto che è stata spesso, e continua ad esserlo, erroneamente giudicata con gli stessi parametri estetici.
Definizione
Volendone dare una definizione, si può dire che la fotografia è qualsiasi sistema che permetta di convertire, in modo più o meno permanente e visibile, immagini prodotte su supporto con l’azione di radiazioni ultraviolette e infrarosse. La sostanza chimica che, per le sue doti di fotosensibilità, è stata più usata è l’argento in alcuni suoi composti come il nitrato d’argento e lo Ioduro d’argento.
La nascita della fotografia
La fotografia ha una data di nascita “ufficiale”: 9 luglio 1839 quando al procedimento fotografico di Louis Jacque Mandè Daguerre (1787- 1851), scenografo e creatore di diorami, viene concesso il brevetto dall’Accademia delle Scienze di Parigi. Il suo socio, e vero “scienziato”, Joseph Nicéphore Niepce (1765-1833), che già negli anni venti aveva prodotto diverse eliografie, muore prima di vedere questo riconoscimento. Nasce così il Dagherrotipo (1839-1860 ca.): una lastra ricoperta d’argento che, esposta ai vapori dello iodio (ioduro d’argento), messa in camera oscura e posizionata davanti al soggetto da riprendere, dopo una posa decisamente lunga e un lavaggio in sale marino e mercurio (per eliminare ogni residuo di ioduro d’argento che potesse continuare a scurirsi), mostra un’immagine speculare dell’oggetto ripreso. Di una nitidezza e lucentezza sconvolgente per l’epoca, questa tecnica rivoluziona il mondo del ritratto, ora alla portata di tutti, e della memoria familiare e collettiva. Rivela inoltre all’uomo la sua pochezza nell’ osservazione diretta della natura, minando il suo senso di assoluto. Il dagherrotipo è un unicum, da cui è impossibile ricavare delle copie.
Più o meno negli stessi anni, in Inghilterra, William Henry Fox Talbot (1801-1877) fa esperimenti trattando fogli di carta con nitrato d’argento e poi applicandoci sopra degli oggetti (foglie, pizzi, etc.) ed esponendoli alla luce; ne derivano immagini negative definite “disegni fotogenici” che vengono lavati in un bagno di fissaggio con sale da cucina. Questi sono poi usati come negativi, posti a contatto con altri fogli sensibilizzati ed esposti alla luce anche per un paio d’ore. L’uso protratto, però, li rende illeggibili in breve tempo; si deve allo scienziato Sir John F.W. Herschel (1738-1822) l’invenzione del bagno di fissaggio definitivo: l’iposolfito di sodio, usato ancora oggi. Nel 1841 Talbot perfeziona la sua tecnica lasciando esposti alla luce i fogli per poco tempo e “sviluppando” poi, con bagni chimici, l’immagine latente creando i primi negativi su carta: i calotipi , che vengono usati per creare positivi per contatto. Tutta la stampa del periodo avviene per contatto e non per proiezione così il positivo ha sempre le stesse dimensioni del negativo.
La stampa fotografica
La prima carta su cui viene stampata la fotografia è un foglio imbevuto di soluzione salina, detta “carta salata”. Questa, nel 1850, viene soppiantata dalla carta all’albumina (1850–1885ca.), inventata da Blanquart-Evrard (1802-1872) usando le chiare d’uovo. Questa carta ha una finitura lucida e compatta e, una volta preparata, può essere conservata per molto tempo prima dell’uso. Sempre nel 1839 lo scozzese Mungo Ponton (1801-1880) scopre la fotosensibilità del bicromato di potassio e inventa, così, la prima tecnica fotografica non argentica: il bicromato, esposto alla luce, diventa insolubile e, una volta lavato, le particelle non sensibilizzate vengono eliminate dal foglio; tale procedimento si rivelerà fondamentale per la fotoincisione. Questa scoperta permette, nel 1856, a Alphonse-Louis Poitevin (1819-1882) di inventare sia le stampe al carbone, estremamente stabili e che possono essere create in diversi colori in base ai pigmenti usati; sia la tecnica fotomeccanica della collotipia per riprodurre fotografie con inchiostro tipografico.
Nel 1851 L’inglese Frederick Scott Archer (1813-1857) inventa il procedimento al collodio umido, un metodo per sensibilizzare lastre di vetro e farne negativi mescolando i sali d’argento al collodio (fulmicotone). In questo modo si elimina sia l’unicità e la delicatezza del dagherrotipo sia la brunosità delle stampe ottenute da calotipi a causa della fibrosità della carta. Il collodio soppianta, così, tutte le altre tecniche fino agli anni Ottanta dell’Ottocento.
Dalla tecnica del collodio nascono quelli che vengono chiamati i “dagherrotipi dei poveri” : l’Ambrotipo (1850-1870 ca.), praticamente un positivo ottenuto mettendo uno sfondo nero alla lastra vetro, sviluppato e fissato e poi lavato con acido nitrico; il Ferrotipo (o tintype), inventato dall’americano Hamilton Smith (1819-1903) nel 1856 e che usa lo stesso procedimento al collodio ma cambia il supporto passando a delle semplici lastre in ferro che sono molto più resistenti e possono anche essere spedite.
Le grandi campagne fotografiche dell’Ottocento
Alleggeriti i macchinari e i procedimenti, il fotografo inizia a viaggiare sia a seguito di spedizioni scientifiche e naturalistiche, sia a seguito di campagne belliche. Tra i primi: Roger Fenton (1829-1869) che seguì la guerra in Crimea. Sono soprattutto gli americani che vanno alla scoperta del loro territorio: memorabili le foto di Timothy O’Sullivan (1840-1882) per la Geological Geographical Survey (1873) o quelle di Alexander Gardner (1821-1882)per la costruzione di parte della Union Pacific RailRoad.
Con la nuova tecnologia al collodio si comincia a fotografare in modo sistematico tutto il bacino del Mediterraneo e il fotografo occidentale si avventura anche nel mondo orientale; si cominciano a esplorare le città europee e americane nei loro aspetti più poveri. La fotografia inizia così a rivestire un’importanza capitale come documentazione geografica, etnografica e sociologica. Un suo uso massiccio è richiesto dalle amministrazioni locali per testimoniare le condizioni di quartieri e popolazioni in un’ottica di risanamento urbanistico.
Migliaia di vedute di monumenti, chiese, palazzi o paesaggi sono scattate col solo scopo della vendita ai turisti. Tale è la richiesta che si fondano delle vere e proprie società editoriali dove dietro un solo nome famoso lavorano parecchi assistenti. In Italia le maggiori industrie del genere sono quella fiorentina dei fratelli Alinari (fondata nel 1852) e quella di Giorgio Sommer (1834-1914) a Napoli.
Fa parte di questa produzione anche la fotografia stereoscopica, scatti presi da macchine con due obbiettivi che danno l’illusione della tridimensionalità se visti attraverso uno stereoscopio. Questo tipo di fotografia, che vuole essere schietta e di immediata comprensione, è definita “topografica” per distinguerla da quella che, pur avendo magari gli stessi soggetti, è invece mossa da finalità estetiche e usata come mezzo di espressione personale.
La nascita delle istantanee
Nel 1880 il collodio cade in disuso ed è sostituito dall’emulsione alla gelatina al bromuro d’argento che permette di preparare le lastre in anticipo e di svilupparle poi in laboratorio; inizia così l’epoca della fotografia moderna: nascono le prime macchine fotografiche portatili già con negativi inseriti il cui sviluppo verrà fatto da appositi laboratori, permettendo così a tutti di scattare fotografie, o meglio “istantanee” (snapshots) per fissare un ricordo, senza nessuna pretesa artistica. L’emblema dell’epoca è lo slogan con cui George Eastman, inventore della macchina fotografica Kodak, pubblicizza la stessa: “Premete il bottone, noi faremo il resto”. (Interessante sapere che la prima macchina fotografica Kodak lavorava con negativi circolari). Nel 1891 viene introdotta la celluloide come supporto per i negativi e la gelatina sensibilizzata viene applicata sulle carta da sviluppo.
Le prime associazioni fotografiche
Ovunque, in Europa e in America, nascono associazioni fotografiche che indicono concorsi, allestiscono mostre e premi, sempre però con una sorta di vassallaggio verso le indicazioni delle accademie pittoriche e dei vari Salon internazionali. Al Camera Club di Londra, Peter Henry Emerson (1856- 1936) tiene la conferenza “La Fotografia, arte pittorica” (1886) in cui, pur dichiarando la fotografia superiore al disegno e all’incisione per aderenza alla natura, la sottomette alle regole estetiche della pittura che, per lui, corrisponde alla scuola di Barbizon, e colonizza tutta Europa con serie di suoi scatti di paesaggi (Naturalistic Photography), sempre lievemente sfuocati (fluo), in cui la mano del fotografo interviene nella resa estetica del positivo. Emerson, nonostante abbia successivamente rinnegato il suo lavoro, condiziona potentemente il gusto fotografico dell’epoca se si pensa che le poche fotografie presenti ai Salon vengono scelte da pittori e che il valore estetico pittorico è la qualità dominante. Tale caratteristica è esaltata dall’introduzione del procedimento di stampa alla gomma bicromatata che, con esposizioni successive della carta, permette di sovrapporre colori diversi sullo stesso positivo, di lavorare la superficie col pennello e di usare carte colorate o di consistenze ruvide, tanto da poter assimilare alcune stampe ad acquerelli. I fotografi pittorialisti hanno così il mezzo ideale per esprimere la loro artisticità attraverso lo strumento fotografico.
Per capire questo fenomeno basta sfogliare alcune riproduzioni pubblicate nella rivista “Camera Work” fondata da Alfred Stieglitz (1864-1946) a New York. Anzi, forse, per raccontare quanto succede in Europa e in America a cavallo dei due secoli bisogna proprio partire dall’esperienza professionale di Stieglitz, il fotografo che più di tutti ha condizionato il modo di fare fotografia sui due lati dell’Oceano.
Alfred Stieglitz e la nascita della “fotografia diretta”
Già tra i più apprezzati partecipanti del Photographic Salon europeo (esemplare The Net Mender del 1894), Alfred Stieglitz (1864-1946) dirige il “Camera Club” di New York, diffonde i principi del pittorialismo fotografico e, allestendo diverse mostre, dà visibilità a autori emergenti come Edward Steichen (1879-1973)e Alvin Langdon Coburn (1882- 1966). Nel 1902 fonda con altri colleghi sia la Photo-Secession, i cui principale obbiettivo è far progredire la fotografia come arte pittorica, sia la rivista “Camera Work” (1903- 1917).
I membri della Photo-Secession dominano anche la scena europea: nel 1908 al Photographic Salon di Londra sono esposte per lo più immagini di autori americani ed è evidente lo scarto tra la passività con cui gli europei si sono adattati allo stile pittorico impressionistico e le nuove strade che percorrono oltre oceano, incarnate nella fotografia esposta da Coburn Flip-Flap (1908).
L’evoluzione di Photo-Secession porta all’affermazione della fotografia come arte a sé: «La forma si adegua alla funzione»; cioè si cominciano ad elogiare fotografie che sembrano fotografie, senza le manipolazioni presenti nelle opere precedenti. Lo scatto fotografico deve essere identificazione di soggetto e forma (Emblematica la fotografia di Stieglitz del 1907, The Steerage ).
Nasce così la Straight Photography, la “fotografia diretta” che implica una ripresa del soggetto in sé e non come accessorio dei sentimenti del fotografo. Stieglitz apre la galleria “291” a New York e per primo espone accanto a fotografie opere di artisti quali Picasso, Picabia, Brancusi, Duchamp. Stieglitz ricerca in modo ossessivo la verità scevra da ogni condizionamento e la trova, alla fine degli anni Venti, nel fotografare le nuvole, da lui definite “Equivalents”; in esse lo spettatore riconosce da un lato il soggetto semplice e banale, ma dall’altro anche una valenza espressiva; la macchina fotografica dota immagini comuni di nuovi significati.
Sono per lo più i fotografi americani che si dedicano alla purezza del mezzo: Edward Steichen, che dal 1920 rinnega tutta la sua produzione precedente ; Paul Strand (1890-1976) che pubblica negli ultimi numeri di Camera Work e Edward Weston (1886-1958) che rinnega il flou delle sue prime opere per dedicarsi a una messa a fuoco nitida in ogni punto della stampa, essenzialità di visione e ricchezza di dettaglio. Per Weston estetica e tecnica si equivalgono.
L’opera di Weston diviene d’ispirazione per molti e nel 1932 viene fondato il gruppo “f/64”, la cui regola base rasenta il dogmatismo più severo: la fotografia deve essere a fuoco in ogni particolare, stampata a contatto su carta brillante in bianco e nero.
Tra i membri più noti possiamo citare Ansel Adams (1902-1984) che dedica tutta la sua vita all’interpretazione della natura e a dominare le complessità tecniche della riproduzione fotomeccanica.
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