Nel 1975, Michel Foucault – punta adamantina della filosofia d’Oltralpe del dopoguerra, tutta snobismo e girocolli neri – compie un viaggio in auto nel Sud della California, in compagnia di due universitari perdigiorno con intenzioni decisamente poco accademiche: recarsi nel cuore della Death Valley – la più arida delle zone desertiche degli Stati Uniti occidentali, scenografia naturale del film iconico di Michelangelo Antonioni Zabriskie Point – e calarsi acidi lisergici per testarne gli effetti psicotropi in prima persona.
Nello stesso anno, pochi mesi prima, aveva pubblicato un saggio fondamentale dal titolo Sorvegliare e punire, sulla nascita delle carceri in Francia secondo un percorso che dal supplizio inflitto pubblicamente sul corpo del condannato – con la descrizione da brividi dell’esecuzione tramite minuzioso squartamento del regicida Robert Damiens – è giunto al sistema delle prigioni a controllo panottico 1.
Un testo tra i più significativi della produzione del filosofo per la definizione del concetto di biopolitica, ovvero di quel complesso sistema di dispositivi di controllo e organizzazione della vita comunitaria messa in atto da chi, in una società organizzata, detiene il potere sovrano, attraverso la definizione di situazioni emergenziali prolungate.
Nel giro di una manciata di giorni, nel febbraio del 2020, l’Italia intera si è ritrovata immersa in un sistema di fortissima limitazione e di stretta sorveglianza, al limite del panopticon governativo nonché mediatico – tutti ricordiamo il vergognoso inseguimento dell’uomo solitario sulla spiaggia ripreso dall’elicottero e mandato in diretta in uno dei programmi televisivi più seguiti.
Non è questa la sede per discutere sulla reale efficacia di queste misure e sulla possibilità che esse costituiscano un pericoloso precedente politico e giuridico, ma possiamo senza tema riconoscere che un cambiamento traumatico dello stile di vita pubblica e privata sembra essere stato accettato attraverso l’imporsi di un’emergenza senza fine, con limitati accessi di resistenza da parte della comunità nazionale.
Un cambiamento, temo, solo parzialmente reversibile (“nulla sarà come prima”, recitava uno dei primi adagi comparsi su media e social) e che prevede una quotidianità fatta di minor frequentazione sociale, di circolazione limitata di persone e di rapida digitalizzazione della attività umane che ancora non hanno intrapreso questa via.
Il punto della digitalizzazione sembra avere un’importanza strategica per il nuovo esecutivo delle larghissime intese guidato da Mario Draghi, illustre banchiere il cui nome aleggiava su Palazzo Chigi almeno dalla scorsa estate.
Nel discorso al Senato in cui il premier presentava il proprio programma di governo, dichiaratamente fondato sui tre pilastri people, planet and prosperity direttamente mutuati dalla prima riga del documento dell’ONU 2030 Agenda, la parola “digitale” è stata ripetuta una decina di volte.
Si è parlato di digitalizzazione della formazione, anche se, di fatto, la digitalizzazione dell’istruzione pubblica ha inevitabilmente fatto enormi passi in avanti l’anno scorso per la conclusione dell’anno scolastico e prosegue in quello corrente.
A questo proposito, già a maggio, il filosofo Giorgio Agamben pubblicava un lapidario articolo in cui denunciava, con la conversione a ibrido presenza-distanza della didattica, la fine del concetto stesso di universitates, ovvero di aggregazione spontanee di persone, gli scholari, accomunati da un fine comune, augurandosi il sorgere di nuove universitates contro la “dittatura telematica”.
Del resto, la telematizzazione della didattica della scuola pubblica italiana è stata affidata a Google, tramite la piattaforma Classroom: lo Stato, da una posizione minoritaria, si è messo nelle mani di uno dei cinque pilastri del Big Tech.. Ma su questo punto ritorno a breve.
In questo clima la grande assente è la cultura, caduta nel dimenticatoio dal giorno uno, e mai realmente rimpianta dagli italiani.
La cultura in Italia ha un impatto notevole sul PIL nazionale, ed è attività essenziale per migliaia di lavoratori che sfamano la propria bocca e quelle dei propri famigliari. Draghi, certo, ha speso parole a riguardo, soprattutto per il comparto del turismo – settore che non sembra trovare mai una collocazione chiara nei piani dei governi italiani, scorporato per l’ennesima volta dall’ormai fu MiBact – ma è troppo presto per valutazioni a riguardo. Sospendiamo il giudizio.
Infatti, più che quelle di Draghi, sono importanti le parole del ministro Dario Franceschini, che nell’aprile 2020, in pieno confinamento forzato, lancia la Netflix della cultura: “una iniziativa di questo tipo ha una potenza di fuoco pazzesca. Altro che Netflix”. Così il ministro ne parlava ai suoi pari europei. Lascio qui il link a un articolo che spiega più nel dettaglio la proposta di “conversione al digitale” architettata dal ministro ferrarese.
In un video-intervento all’evento Next Generation. The Italian Innovation Society tenutosi a Roma in ottobre, lo stesso Franceschini ribadiva il punto della Netflix della cultura (che di fatto poi è stata creata ma non ancora lanciata con il nome di ITsArt), parlando anche della creazione di una digital library, ovvero “una grande opera di digitalizzazione che ci permetterà di trattare con i giganti del web da una posizione di forza”. Tali giganti del web o Big Tech in inglese, spesso semplificati con l’acronimo GAFAM, sono Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft.
Chi ha letto qualche pagina dell’illuminante saggio Il capitalismo della sorveglianza, pubblicato nel 2019 dalla studiosa Shoshana Zuboff, sa bene che con queste cinque entità (siamo oltre la dimensione della grande azienda) non si ha mai margine di trattativa.
Non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo pensare, che il ministro Franceschini sia uno sprovveduto, e infatti non lo pensiamo. Però, anche qui come per la digitalizzazione della scuola, sembra che lo Stato si ponga in realtà in una posizione di sottomissione, altroché di forza.
Davvero i processi di digitalizzazione devono incentrarsi su una Netflix della Cultura?
Nell’idea di chi scrive, no. È naturale che in questo caso si tratta di una piattaforma di distribuzione piuttosto che di produzione di contenuti, ma visto il canale prioritario nella comunicazione spesso dato a questo progetto, l’esempio calza. Utilizzare la tecnologia digitale al solo scopo di “spettacolarizzare” il patrimonio, impone degli interrogativi etici.
Un breve testo di Stefano Capezzuto riporta alcune considerazioni molto puntuali sulla necessità di una narrazione diversa di quelle che sono una disciplina trasversale come le Digital humanities, in risposta all’accusa contenuta in un saggio di Andrea Tomasin, ovvero di una disciplina fallita perché fondata sull’inconciliabilità tra tecniche informatiche e discipline umanistiche.
Le prime sono uno strumento di utilità pratica per lo sviluppo umano (e quindi fonte di guadagno economico), impropriamente usate da umanisti che non ne hanno le competenze riducendone il campo di applicazione all’hortus conclusus accademico. Capezzuto ribalta questo paradigma e sottolinea l’interdisciplinarità della materia, fatta di due anime delle quali quella umanistica ha il compito, per sua natura, di attribuire senso.
Potrebbe nascere da questa cattiva narrazione l’equivoco alla base delle iniziative ministeriali sopracitate che, ponendosi in dialogo con i Big tech e scollando quindi la natura tecnica da quella umanistica, si piegano ai loro interessi e alla sorveglianza del loro panopticon digitale.
Casi virtuosi di produzione di contenuti digitali fondati su presupposti differenti esistono.
4CH, un progetto europeo di rete fra varie istituzioni – tra le quali l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del MiBac, segno che l’operato del Ministero in questo campo non va solo in una direzione – che prevede la creazione di un database aperto che raccoglie modellazioni tridimensionali, strumenti per l’archiviazione, elaborazioni diagnostiche e altro materiale utile per la conservazione dei beni culturali, restituito quindi in maniera democratica alla comunità.
Un progetto, seppur diverso nei fini, ben lontano anche nei presupposti dalla Netflix ministeriale a pagamento, classista ed elitaria.
Importante considerare, comunque, che l’uso degli strumenti digitali per la conoscenza e la fruizione non possono sostituire l’esperienza sensoriale diretta (per ora…).
Vedere la bellezza della pennellata del Tintoretto ridotta al reticolo seppur invisibile dei pixel lima sottilmente sino ad annullare i valori tattili che fanno grande un dipinto, come sosteneva il Berenson.
Smaterializzando l’esperienza sensoriale si limita anche la capacità ragionativa e creativa della mente umana che si trova appiattita tra uno schermo e un divano e non libera di innalzarsi con gli occhi nella vastità di una cupola trompe-l’oeil.
Predisporre i cittadini a una rinuncia del luogo fisico della Cultura in favore di quello digitale, significa invitarlo a rinunciare alla democrazia partecipativa e alla preservazione della memoria.
Digitalizzare in funzione della conservazione significa difendere la memoria come materia viva, senza lasciare che entità esterne, per loro natura predisposte alla sorveglianza, possano operare una selezione se non addirittura una censura di parte di quella stessa memoria, che sarebbe allora materia morta, mero prodotto da e-commerce.
1 Termine usato per caratterizzare la pianta di edifici carcerari a sviluppo radiale, con più corpi di fabbrica che si dipartono da un elemento centrale usato per la sorveglianza contemporanea di tutti i moduli.