In inglese esiste una differenza tra due termini: digitization e digitalization. In italiano, questa differenza non è molto diffusa, probabilmente anche perché è foneticamente poco attraente.
La differenza tra questi due termini è invece estremamente rilevante, in quanto, in un certo qual modo, essa misura il “ritardo” di innovazione che alcuni Paesi, o più in generale, alcuni settori produttivi, hanno rispetto ad altri.
Digitization è il termine con il quale si indica la conversione dall’analogico al digitale.
Digitalization evoca invece l’utilizzo delle tecnologie digitali direttamente all’interno delle modalità operative di lavoro.
In questo momento storico così particolare, nel quale molti degli attori si sono trovati costretti ad adottare innovazioni che pur esistendo da anni facevano fatica a fare breccia nel settore artistico e culturale, bisognerebbe tenere alta l’attenzione su questa differenza.
Durante il lockdown, infatti, Musei, fiere e Gallerie, sono state travolte da un fervore mai visto prima nei riguardi della tecnologia.
Oggi, questo slancio, ha comportato, in termini organizzativi, la presenza di musei e gallerie su canali social, su servizi di video streaming, su piattaforme che consentono la creazione di esposizioni in 3d online.
Si tratta, a ben vedere, di innovazioni che intervengono soprattutto sul versante della digitization: la replica delle esposizioni, qualche video introduttivo, dei post sui social, sono tutti elementi che convertono il lavoro di Musei, fiere e gallerie da analogico a digitale.
Questo, almeno, è quanto è stato sinora realizzato.
La contestualizzazione temporale è infatti un elemento molto importante: il nuovo dilagarsi dei casi di Covid rinforza lo spettro di un nuovo blocco generale delle attività che, veritiero o meno, genera, in ogni caso, impatti reali sul comportamento aggregato.
Sono all’ordine del giorno, ad esempio, riflessioni su come potenziare le capacità degli operatori nella definizione di strategie di engagement, di fruizione digitale e di valorizzazione attraverso i social.
Questo atteggiamento, sicuramente positivo, merita però una riflessione di più ampio respiro, ponendo anche dei vincoli costruttivi all’innovazione al fine di poter incrementare gli impatti futuri che le scelte di oggi possono generare nel medio periodo.
Vincolo n. 1: Il grande interesse che gli operatori stanno mostrando nei riguardi della tecnologia non può, né deve, concentrarsi sulle sole attività di “engagement”.
Vincolo n. 2: La scelta delle innovazioni deve essere operata tenendo conto della necessaria continuità che ogni servizio richiede, e pertanto i nuovi servizi realizzati devono essere adottati tenendo in considerazione anche necessità organizzative;
Vincolo n. 3: Musei, fiere e gallerie devono prediligere tecnologie che siano utili anche al termine dei periodi di emergenza.
Questi tre vincoli sono strettamente legati tra loro e implicano una visione “strutturale” dell’innovazione di prodotto e di processo all’interno delle organizzazioni culturali.
Forse il primo vincolo potrà risultare impopolare, ma “porre al centro” il visitatore, non significa soltanto pensare “alla fruizione”. Porre al centro il visitatore può anche implicare “innovare” l’intera filiera “produttiva”, andando ad agire anche su elementi che non riguardano esclusivamente le fasi di “front-end”: migliorare il Controllo di Gestione, migliorare i criteri di misurazione delle performance, adottare protocolli Internet of Things all’interno dei Musei (operazione molto più semplice quando i visitatori sono scaglionati), introdurre sistemi di e-ticketing, adottare software di Customer Relationship Management, adottare dei sistemi informativi interni, e chi più ne ha più ne metta.
Innovare, quindi, non significa soltanto adottare strumenti di “digitization” ma anche di “digitalization”, e, come visto, non sono poche le innovazioni possibili in questo senso.
Fortemente connesso al primo punto è dunque il secondo: il lavoro da fare è tanto, e noi viviamo in un mondo caratterizzato dalla “scarsità” di risorse.
Non c’è bisogno di entrare in tecnicismi per comprendere che anche la sola apertura di profili Facebook, Twitter, Instagram, TikTok, TripAdvisor, Youtube e affini ha bisogno di “persone” che devono poi “popolare” tali profili, e che quindi l’organizzazione necessita di risorse umane ed economiche da destinare a tale servizio.
Quindi la scelta di aprire una pagina Facebook è sicuramente centrale, ma non è affatto un traguardo. Bisogna avere un piano editoriale definito, un piano media, e persone che possano lavorarci.
Data la già richiamata scarsità di risorse, quindi, vale la pena chiedersi se abbia più senso destinare una risorsa umana alla gestione di un profilo Facebook o ad una qualsiasi delle altre attività strutturale che possono migliorare la qualità gestionale delle organizzazioni.
Con ciò non si intende affermare che “la svolta social” degli operatori culturali ed artistici sia superflua.
Si intende piuttosto affermare che “la direttrice d’innovazione” più adatta varia a seconda dei casi specifici e che prima che si cada tutti nella nuova smania delle “mostre” virtuali, può essere utile ricordare che l’engagement non è l’unica strada per migliorare il nostro settore.