Ad aprile 2019 la Tate di Londra ha pubblicato sul suo sito una guida allo “slow looking” per contrastare quello che molti studi affermano, ossia che nei musei le opere vengano guardate in media solo 8 secondi. Chissà cosa avrebbe pensato Mark Rothko di questa nostra abitudine.
L’artista immaginava che lo scopo della sua pittura fosse proprio quello di coinvolgere il più possibile lo spettatore, di immergerlo nelle sue opere a tal punto, che queste dovevano essere percepite come dei luoghi.
Nella sua ossessione Rothko arrivava addirittura a immaginare che la distanza ideale, tra l’occhio e le sue opere, sarebbe dovuta essere di 45 cm. Inoltre, si sarebbero apprezzati i suoi dipinti se oltre alla distanza si fosse tenuto conto della luce, che non doveva essere troppo sparata.
Ci vuole tempo, infatti, perché l’occhio regoli la sua messa a fuoco, i quadri si muovano, prendano vita, respirino e chi guarda senta di farne parte.
Sono le parole che Gregorio Botta scrive nel suo originale “Pollock e Rothko – Il gesto e il respiro”, il libro appena pubblicato nella neonata collana di saggi Stile Libero Versus varata da Einaudi.
La raccolta di volumi vuole raccontare alcune delle dicotomie più emblematiche della nostra società e Gregorio Botta è convinto che Pollock e Rothko rappresentino uno dei tanti yin e yang che animano lo specifico ambito artistico.
Sempre a proposito di Rothko indicativo è l’aneddoto sui Seagram Muras. L’artista impiegò otto mesi per dipingere le opere commissionategli per un ristorante di alto livello che doveva inaugurarsi all’interno del Seagram Building a New York. Ci vollero tre sessions prima che si sentisse soddisfatto, anche se poi quelle tele non saranno mai appese nel ristorante che le aveva commissionate.
Per Rothko i suoi dipinti non meritavano di finire ad abbellire un posto dove i più ricchi bastardi di New York sarebbero andati a nutrirsi e pavoneggiarsi. Ironia della sorte alcune di quelle tele oggi sono appese proprio alla Tate di Londra.
Rothko è come la sua pittura “lenta e ossessiva. Ci vogliono tempo e pazienza per realizzarla, ci vuole tempo per guardarla” scrive ancora Botta nel suo saggio. L’autore del libro, artista e giornalista, sviscera una delle stagioni mitiche dell’arte del secolo scorso con una sensibilità unica.
Partendo dalle due vicende biografiche, parallele e divergenti, di Jackson Pollock e Mark Rothko, l’autore ci proietta nel 1950 per approfondire, con rara arte sinottica, le due anime della così detta scuola di New York che cambiarono le sorti dell’arte del secondo dopo guerra e che mantengono inalterata la loro influenza fino ai nostri giorni.
Botta ha impiegato un anno per dare vita al suo libro e il lavoro lo ha coinvolto a tal punto che nel capitolo finale egli condivide una sua vicenda personale che riguarda Pollock. Se infatti giovane diplomato all’accademia di Belle arti di Roma, proprio con una tesi sull’artista, si sentiva respinto dal massimo rappresentate dell’action painting, oggi da artista maturo, a distanza di decenni, ha preso coscienza che un po’ di Pollock abita anche in lui, rothkiano incallito.
Si potrebbe dedurre che c’è voluta quasi una vita per riconoscere nella sua essenza l’arte e l’artista su cui Peggy Guggheneim, su consiglio di Mondrian, posò i suoi occhi di amante dell’arte. Proprio grazie a lei, il tormentato e insicuro ragazzo dall’infanzia nomade, che non si è mai sentito apprezzato dalla sua famiglia, nonostante tutto riuscirà a diventare l’emblema dell’arte made in Usa.
La sua ascesa fu celere ma anche lui, come tanti, sarà digerito dal sistema dell’arte e si sentirà ‘abbandonato’ dai collezionisti, dai suoi amici e persino dal suo esegeta Greenberg. Gregorio Botta racconta tutta le difficoltà che incontrerà Pollock per riemergere dal cupo abisso fatto di sbronze, risse e inattività.
A 44 anni morirà, ubriaco, andando a sbattere contro un albero. Perché quella vitalità e quell’energia, per usare le parole di Morandi di fronte ai dipinti di Pollock, che hanno contraddistinto la sua pittura artistica non lo hanno salvato dalla discesa all’inferno? Forse tutta quella vivacità e quell’esplosione creativa, che sembrava improvvisata come fosse un jam session di jazz, sono state da lui imprigionate nelle sue opere.
Quasi che egli avesse voluto usare i suoi quadri per nascondere quella forza che solo noi spettatori possiamo svelare. Anche per Pollock non basteranno otto secondi dei nostri sguardi. Per l’arte ci vuole tempo e magari qualche buon libro, come quello di Gregorio Botta.