Basta incrociare per un attimo il suo sguardo, per capire che Carlo “Charlie” Lioce non è il solito gallerista all’italiana. Il suo habitat è la galleria, ma anche il bar, dove ama intrattenersi in intense discussioni con artisti e collezionisti perché, nella sua visione, la galleria deve essere un mondo aperto, fatto di rapporti umani, in cui ci si appassiona d’arte e non una boutique elitaria che allontana più che avvicinare. E se oggi la crisi affligge sempre di più il sistema dell’arte italiano, il modello Lioce, basato sulla qualità e su una inusuale (almeno per noi) politica dei prezzi, sembra essere un antidoto efficace, tanto che il suo Spazio al n. 4 di Via Francesco Hayez a Milano è forse uno dei pochi che può vantare un pubblico quotidiano e non solo legato ai vernissage. Per saperne di più lo abbiamo incontrato nella sua Room Galleria, ecco cosa ci ha raccontato.
Nicola Maggi: Ci parli del tuo approccio alla professione di gallerista?
Charlie Lioce: «Amo molto lavorare con i giovani artisti. Guardo molto al loro lavoro e alle loro potenzialità, cercando di dar vita ad un rapporto che non sia solo di lavoro ma anche di stima reciproca e di amicizia. Li seguo in quello che fanno e non chiedo mai l’esclusiva. Questo non vuol dire che la mia sia una galleria di passaggio. I rapporti si mantengono ma ritengo che sia importante che i giovani artisti facciano vedere il proprio lavoro. Mi piacerebbe che anche le altre gallerie italiane collaborassero di più. E questo, in particolare, quando si tratta di giovani artisti, perché oltre a svilupparne il mercato è importante sostenerli. Specialmente in un paese come il nostro, con tutti i problemi che ci sono con le Istituzioni (musei ecc.). In Italia siamo sempre un po’ troppo esterofili, cerchiamo di andare sul sicuro seguendo le mode. Ma siamo sempre in ritardo. Quando, poi, se si guarda a quello che accade fuori dai nostri confini, non è che ci siano tutte queste grandi novità. E’ sempre una questione di giochi di potere. Io, personalmente, lavoro con degli artisti che stanno crescendo e stanno lavorando. Punto molto sul lavoro e non sulla sola immagine».
N. M.: Nel mondo il mercato dell’arte contemporanea è in costante ascesa mentre nel nostro paese arranca faticosamente. Secondo te che cosa deve cambiare nel nostro sistema dell’arte perché si possa sperare in un rilancio del mercato?
C.L.: «In Italia mancano i musei e manca un regime fiscale ad hoc. Per fare il gallerista, inoltre, dovresti fare un corso. Non si può lasciare tutto in mano a persone che aprono una galleria solo perché hanno i soldi per farlo, in questo modo si fanno solo danni. Dovremmo essere più seri in questo, non che chiunque si può mettere a fare l’artista o il gallerista. Inoltre ci vorrebbe una maggior informazione attraverso le riviste, un’informazione più corretta e poi, tutte queste fiere che stanno sostituendo le gallerie… »
N.M.: E il nostro collezionismo? Cosa ne pensi?
C.L.: «Il collezionista italiano è un po’ viziato, spesso sembra che voglia quasi le opere in “regalo”. Qualche tempo fa, ad esempio, mi è capitato di discutere con un collezionista importante proprio su questo punto: voleva uno sconto esagerato, del 40%, perché, sosteneva, era quello lo sconto che gli applicavano le altre gallerie. Anche questo è sbagliato: in base a cosa viene praticato uno sconto del 40%? Andrebbe rivista completamente la politica dei prezzi, ma penso che molte gallerie cominceranno presto ad adeguarsi perché altrimenti rimarranno con i magazzini pieni. In questo modo il sistema si inceppa e non va avanti né artista e né il mercato. Sono convinto che ci saranno dei cambiamenti. Tante gallerie chiudono anche perché il collezionista è abituato male e perché negli ultimi anni è diventato anche un po’ mercante: è un sistema fallimentare. Bisogna che tutta la questione sia un po’ più seria».
N.M.: Le nuove generazioni di collezionisti, invece, come si comportano? Che rapporto hanno con l’acquisto?
C.L.: «Almeno per quanto mi riguarda c’è un interesse molto forte, anche perché ho dei bravi artisti che vendo ad un prezzo accessibile. L’arte contemporanea è un mondo affascinante e chi oggi vi si avvicina è molto curioso o perché ha sognato di fare l’artista, o perché l’ha fatto e poi si è occupato di altro per motivi spesso lavorativi. L’arte ti permette di scoprire un nuovo mondo, di conoscere nuove persone. Room Galleria, ad esempio, può contare su molti nuovi collezionisti che spesso hanno iniziato ad appassionarsi all’arte contemporanea proprio venendo da me. Oggi tra di noi è nato un rapporto di amicizia e di stima e mi sostengono comprando i lavori perché gli piacciono. E deve essere così: se uno compra un lavoro perché gli piace, anche se con il tempo non vale di più, se lo tiene e sostiene sempre l’artista, muove un meccanismo».
N.M.: Diciamo che il rischio peggiore che corre è quello di aver comprato un’opera che gli piace…
C.L.: «Proprio così. Se uno compra con la pancia qualcosa che gli piace rischia sempre un buon affare, come è successo a me. In Italia siamo un po’ provinciali, siamo legati ad un sistema internazionale, abbiamo un immaginario che non è reale, delle dinamiche di riferimento che sono astratte perché fanno parte di altre economie. Noi dobbiamo cominciare a lavorare con degli artisti che abbiano manualità e non solo progettualità».
N.M.: Prima hai citato la politica dei prezzi. Spesso è proprio il costo di un’opera a frenare l’acquisto, in particolare quando ci si trova davanti al lavoro di un artista emergente…
C.L.: «E’ un problema che adesso stanno pagando le nostre gallerie. Negli anni scorsi hanno venduto a dei prezzi eccessivi artisti ancora all’inizio della carriera e quando il collezionista ha cercato di far tornare indietro delle opere alla stessa galleria che gliel’aveva vendute se le è viste rifiutare. Questa è la serietà di alcune nostre gallerie. Io, da un certo punto di vista, sono anche contento. Non si possono pagare cifre esorbitanti per degli artisti giovani, non ha senso perché non sono sostenuti, strutturati, o se lo sono è il gioco delle tre carte. Ci sono degli artisti italiani che la gente ha pagato molto ma che hanno un buon lavoro e che adesso stanno crescendo, che hanno delle collaborazioni con gallerie straniere. In percentuale, però, sono molti di più quelli che non valgono niente. Conosco dei collezionisti che hanno speso 20-30 mila euro per un giovane artista e che adesso non sanno cosa farsene».
N.M.: Ecco, come si costruisce un prezzo per un artista ad inizio carriera?
C.L.: «Io non faccio un calcolo di coefficienti, non ha senso. Le opere devono avere un prezzo accessibile, per tutti, anche per il collezionista importante perché comunque per prima cosa sono soldi e poi perché in questo modo fai girare tutto: l’artista lavora, la galleria lavora. Io lavoro con artisti come Luca De Leva o Manuel Scano, che sono bravi artisti, giovani. Luca ha fatto due personali da me e il prezzo lo abbiamo sempre deciso senza contare i materiali che vengono utilizzati per fare l’opera ma per un’esigenza di vita. Ho sempre venduto i suoi lavori in un range che andava dagli 800 ad un massimo di 5000 euro per installazioni grandi che ha comprato anche un collezionista molto importante. Oggi Luca è cresciuto ma per i giovani artisti bisogna stare su prezzi accessibili, in questo modo li fai girare. Poi mi capita di incontrare collezionisti che si sono avvicinati da poco all’arte e gli vado anche incontro».
N.M.: Dalle tue parole si capisce bene che Room Galleria non soffre di quella fuga di pubblico che caratterizza ormai le gallerie italiane che, spesso, si lamentano di come i loro locali siano frequentati solo al momento del vernissage…
C.L.: «Io ormai lavoro 365 giorni all’anno, anche quando sono al bar. Vengono a trovarmi artisti e collezionisti, non perché debbano comprare per forza ma anche solo per un confronto. Le altre gallerie sono troppo chiuse non c’è un rapporto. Da parte mia cerco molto i nuovi collezionisti e li mando anche in altre gallerie ma non si trovano mai a loro agio perché entrano e trovano la gente che li saluta ma che non gli si dedica, quasi fossero dei musei. E’ tutto un po’ troppo borghese, a circolo chiuso, e questo non va bene. E’ come quando si va alle fiere e si vede che la domenica il gallerista va via e lascia le assistenti: è sbagliatissimo, perché la domenica vengono le coppie, i curiosi. Il fatto è che non devi stare lì perché devi vendere per forza ma perché in questo modo gli insegni, gli spieghi, li fai appassionare. E’ lì che bisogna stare, proprio l’ultimo giorno. Invece c’è ancora questo modo di fare per cui il gallerista, che è la figura principale, sta lì i primi giorni e poi se ne va. Così non c’è comunicazione, è inutile che si lamentino: sono loro stessi i colpevoli di questa situazione».
N.M.: Tornando alla tua attività, ci dici qualcosa di più sul tuo modo di lavorare con i giovani artisti?
C.L.: «Tutto nasce insieme: l’artista lavora e io lo seguo nella sua attività, poi quando è pronto e ha una serie di lavori per una mostra allora si procede. Non amo lavorare a progetto, mi interessa molto, invece, l’artista cha ha anche una sua manualità non solo progettualità, quello che lavora giornalmente e mi piace molto seguirli nella loro attività. Noi ci finanziamo vendendo le opere, che è la cosa più difficile. Abbiamo una serie di collezionisti che ci seguono costantemente e che comprano i lavori prima, così che poi riusciamo a produrre la mostra. Oggi la mia galleria è frequentata anche da artisti che non collaborano per forza con me. Vengono a trovarmi per uno scambio di idee, per un confronto. Peraltro sto pensando di dedicare a loro un giorno alla settimana, in modo che possano venire e farmi vedere i loro lavori direttamente in galleria».
N.M.: A proposito di mostre, sempre più gallerie si affidano a dei curatori per realizzare le proprie esposizioni. Tu come la pensi?
C.L.: «Credo che il miglior curatore sia il gallerista assieme all’artista. Quello che mi serve non è un curatore, figura che ritengo di passaggio, ma un critico. E questo è un problema, in Italia ci sono più curatori che artisti. Oggi, ovunque, fanno corsi per curatori, come quello che ha lanciato a luglio la Fondazione Prada e che prevede, per il vincitore, l’organizzazione di una mostra nella loro sede di Venezia e una in Qatar. Ricordo che quando ho esordito con il mio primo spazio ho organizzato una mostra dove il comunicato stampa era un testo di Gino de Dominicis in cui parlava proprio della problematica dei curatori che dovrebbero trovare un editore coraggioso che pubblichi le loro “perversioni”. Era interessante e divertente, anche ironico. In Italia manca la critica perché non si legge. D’altronde si vive in un mondo d’immagine e si guardano le immagini…»
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