Amici del contemporaneo, l’intervista che vi propongo oggi è entusiasmante e vulcanica, proprio come la protagonista Sara Sanesi, invischiata a tutto tondo nell’arte contemporanea: in casa, in amore, in cucina, al lavoro.
Alice Traforti: Cara Sara, la tua storia di collezionismo inizia in famiglia e discende dalla passione trasmessa da tuo padre. Vuoi raccontarci qualcosa dei tuoi ricordi d’infanzia?
Sara Sanesi: «La mia è stata un’infanzia felice, direi proprio a colori, ho un ricordo vivissimo di paesaggi, volti di donne, pennellate di colore appese alle pareti di casa, tantissime opere del ‘900 Italiano tra cui Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Tielson, Music, Cassinari, Bueno, Maccari ecc. Ricordo come fosse adesso i pomeriggi passati in casa a riprodurre ad acquarello le tele di Schifano, di Franco Angeli e di Saetti al posto dei classici disegni che ogni bambino è solito fare in tenera età, e questo credo abbia fin da subito segnato la mia predisposizione al bello e all’arte. Verso la fine degli anni ottanta, avevo circa sei anni, i miei genitori iniziarono a portare me e mia sorella in giro per l’Italia e all’estero a visitare musei di arte contemporanea, mostre e fiere e tornavamo sempre a casa con tantissimi libri che io puntualmente mi divertivo a sfogliare, annusare, toccare. Ricordo ancora una sera di primavera, tornando a casa dopo una lezione di danza, rimasi inorridita: le pareti di casa erano completamente vuote, sgombre, libere e appesi in salotto c’erano solo due strani oggetti: una lastra di acciaio raffigurante un uomo con una gamba su uno sgabello (che poi poco dopo scoprii essere Pistoletto) e una grossa pelle sagomata, che ai tempi mi piaceva definire come un reperto archeologico, raffigurante un alambicco nero (G. Zorio), alambicco che mio padre diceva servisse a “purificare le parole”.
Da quel momento in poi nulla è stato più lo stesso, la casa si riempiva via via di opere particolari, niente più pennellate, personaggi, paesaggi, ma materia, scritte, tagli ecc. e tutto questo coincideva con il ritorno di mio padre a orari improbabili con appresso opere che il giorno dopo arricchivano la casa donando un significato ulteriore. Ero enormemente affascinata da questo, dalla mutevolezza, dai dettagli e dai racconti di mio padre di queste incredibili serate con artisti e galleristi passate a disquisire di arte contemporanea, avrei solo voluto essere più grande».
A.T.: Ricordi la prima opera che hai acquistato per te, per la tua collezione privata?
S.S.: «La prima opera che ho acquistato per la mia collezione è stata una foto di Massimo Bartolini: Square Angle on Black Well del 2005, mentre avrei voluto acquistare come prima opera per valore affettivo “Ebrea” di F. Mauri del 1971».
A.T.: L’arte ti ha sempre accompagnata e ti accompagna tutt’ora nella tua professione di maître de salle e sommelier al Ristorante Pepenero di Prato. Come funziona questo sposalizio tra arte e ristorazione?
S.S.: «È un connubio speciale. Quando un cliente siede nel mio ristorante ha la possibilità di ammirare opere di diversi artisti, di anni e correnti differenti. Chi non si intende di arte avverte che c’è del bello, mentre i più interessati chiedono, ed ecco che si instaura un dialogo che porta il tutto a un livello superiore, costruttivo per entrambi e per il ristorante stesso. Anche i più scettici osservano, provano forse fastidio, chiedono il perché di certe opere. Mi è capitato che chiedessero di cambiare tavolo perché l’opera in questione provocava emozioni negative. Però alla fine è comunque terreno di dialogo, di confronto che porta sempre attenzione sull’arte e questo credo sia positivo, come si dice: bene o male basta parlarne».
A.T.: Un’ulteriore evoluzione si è compiuta creando un’integrazione identitaria tra le arti visive e l’arte culinaria, una fusione che va ben oltre le pareti, inglobando in toto la routine e la filosofia stessa che permea la vision del ristorante, fino ad arrivare nei piatti. .Anche qui, non si tratta di decorazione, ma di ricerca e sperimentazione…
S.S.: «Il connubio arte e cibo è cosa molto discussa anche nell’ambito della cucina e attualmente molto di moda. Io e lo chef, mio marito, la viviamo in maniera tutta nostra essendo amanti dell’arte, della cucina, del vino, della musica, della danza e della poesia. Tutto si intreccia, tutto nasce dallo studio, dalla conoscenza, dall’esperienza, dall’istinto, dal genio e molte volte trovo tanta arte nella cucina, ma non solo a livello estetico, proprio nei modi di pensare, nelle gestualità, nei concetti, nella poetica, ora appartenente a una corrente ora a un’altra.
L’idea di fondere nel piatto le due cose non è da parte nostra una mera riproduzione estetica ma di concetto, quindi partendo da uno studio approfondito dell’artista andiamo a ricreare il piatto, aggiungendo del nostro, scegliendo con cura ingredienti e tecniche di realizzazione per arrivare al fine ultimo della nostra visione del concetto espresso dallo stesso artista. I piatti e l’artista in questione vengono poi accuratamente spiegati per far sì che tutti possano facilmente fruire dell’esperienza a 360°. Anche l’accompagnamento del vino al piatto è studiato alla medesima maniera».
A.T.: Ci saranno ulteriori evoluzioni?
S.S.: «Certamente, chi si ferma è perduto! Io personalmente non smetto mai di leggere, di ristudiare la storia dell’arte, di appassionarmi a nuovi e vecchi generi musicali, di riscoprire vecchi poeti e questo influisce molto sulla mia vita e di conseguenza sul modo di pensare la nostra ristorazione. In particolare stiamo lavorando a un nuovo percorso di degustazione che ripercorra tutte le nostre passioni, ma siamo ancora in fase embrionale, pertanto chi vivrà vedrà».
A.T.: Com’è cambiato il tuo modo di collezionare dal 2008, anno in cui entri di casa al Pepenero, fino ad oggi?
S.S.: «Al momento credo di essere molto coerente con la mia collezione e con la collezione di mio padre, il filone che seguo è il medesimo con un occhio più attento alla fotografia che amo in particolar modo. Sinceramente credo sia più l’arte che influenzi il nostro modo di vivere la ristorazione che il contrario. L’arte ha grande spazio all’interno del ristorante, non solo alle pareti, non solo nell’elaborazione dei piatti del percorso di degustazione, ma anche nella scelta del menu cartaceo, della carta dei vini quasi sempre all’interno di cataloghi di artisti che amo e prediligo, nella presentazione del nostro pane, nei nostri assaggi di benvenuto… c’è sempre un richiamo all’arte, sempre.
Anche le ceramiche stesse richiamano in certi casi opere di scultori, il marmo di Carrara per esempio è utilizzato in diverse portate, le nostre fotografie nel sito e sui nostri canali social sono fatte da un bravissimo fotografo, Lido Vannucchi, che interpreta a pieno il nostro concetto. È una continuità che non si spezza, sono diverse espressioni artistiche che si confondono e creano la nostra idea di ristorazione: è un po’ come essere nella nostra testa».
A.T.: Mi interessa capire come questa scelta di vita abbia influito nella tua collezione, come la tua collezione si è trasformata.
S.S.: «Diciamo molto più che trasformata, in certi casi, come nell’acquisto dell’opera di Michele Zaza – che personalmente adoro – la scelta dell’opera da acquistare è caduta su quella raffigurante Zaza, suo padre e il tozzo di pane. Il pane è uno delle icone della mia città, la bozza pratese è per noi importantissima, è il portavoce di una condotta di vita essenziale che nel pane riconosce il suo simbolo primo, è uno degli ingredienti principali della minestra di pane, della pappa al pomodoro, le nostre tradizioni, le nostre origini».
A.T.: A bruciapelo: che cosa pensi dell’arte contemporanea oggi?
S.S.: «È una domanda molto complicata, potremmo parlarne per ore senza venirne a capo e il mio vuole solo essere un punto di vista da mera appassionata. Attualmente a livello globale gli artisti sono in un numero impressionante, contribuendo a creare una condizione caotica di espressioni, di forme, di stili ed è veramente molto difficile orientarsi, ma non dovremmo sorprenderci più di tanto… Alla fine siamo figli di un’era digitale dove è quasi obbligo condividere ogni stato d’animo, ogni momento, ogni pensiero, ogni tutto, sempre più social e sempre più soli. Credo inoltre che i giovani artisti attuali portino sulle spalle il grande peso di un passato glorioso, copioso di idee, di concetti, espressione di un momento storico molto attivo e critico rispetto a oggi ove le idee si manifestano in gran parte sulle piattaforme social senza più dibattiti vis-à-vis, ove le informazioni, tante, pure troppe, sono a portata di clic.
Abbiamo in tanti casi perso il contatto non solo con le persone ma anche con i materiali, con i profumi, il nostro cervello è appiattito da miliardi di informazioni che riceviamo al secondo, spesso anche senza volerlo. È pertanto un discorso molto complesso che sicuramente non sono neanche in grado di affrontare, so solo che vedo tanta confusione. Vorrei anche aggiungere che non troppo tempo fa, parlando con degli esperti di cucina, mi trovai proprio a far un paragone tra lo stato attuale dell’arte contemporanea e lo stato attuale della cucina, ovviamente con le dovute differenze, ma anche in quell’occasione mi trovai a dire che i due mondi non viaggiavano a livelli così diversi quanto a problematiche. Alla fine, come dicevo sopra, tutto è connesso».
A.T.: In contropiede: quale rapporto avete con la città di Prato e le sue istituzioni? Sarebbe possibile, secondo voi, riproporre tutto questo in un’altra città?
S.S.: «Partiamo dal presupposto che il padre di mio marito, il Sig. Marino, è uno dei camerieri storici di Prato, quasi 88 anni, di cui 75 di onorato servizio, ancora in vigore, e quindi è conosciuto da tutti, sia giovani che meno giovani, e tantissimi vengono al ristorante anche solo per la sua tartara preparata al tavolo. Ma al di là del pezzo quasi da novanta di mio suocero, siamo un’attività oramai già conosciuta a Prato visti i nostri 16 anni di età e tanti clienti sono veramente sensibili all’arte contemporanea.
Il nostro rapporto con il Museo Pecci è un rapporto di collaborazione. Diverse volte ospitiamo artisti, critici e dirigenti e non perdo mai occasione, su richiesta, di accompagnare qualche cliente a visitare i nostri musei cittadini, tra cui anche il Pretorio e il Museo del tessuto. Sono cose che faccio autonomamente perché amo l’arte, il mio lavoro e la mia città. Certo che sarebbe possibile ripetere tutto questo in un’altra città, anche se avere un museo come il Pecci e la Casa d’aste Farsetti vicine sensibilizza ancora di più i clienti, ma come in tutte le cose la passione fa muovere le montagne».
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Un esempio gioioso, consapevole e attuale di come l’arte contemporanea possa entrare (dalla cucina) direttamente nella vita, senza limitarsi ad abbellire pareti altrimenti vuote, ma nutrendo (alla lettera) anima e corpo.