“Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente” è un’opera fondamentale per chiunque sia interessato a comprendere la storia e l’evoluzione della percezione visiva in Occidente ma soprattutto presenta peculiari caratteristiche di interesse per il collezionista che è sempre di più sollecitato da opere iconiche o aniconiche, astratte, affette da concretismo, figurative o addirittura fotografiche.
Il collezionista si chiede quali sono le immagini della realtà che possono entrare sulle diverse superfici pittoriche?
Qual è il modo migliore di guardare, vedere, collezionare una rappresentazione della realtà calata in ambito artistico?
Ed ancora, educato dalla propria collezione, come può il collezionista continuare a guardare la realtà esterna, le persone e l’ambiente?
A queste e tante altre domande risponde il testo che mi accingo a recensire.
Originariamente pubblicato in francese nel 1992 da Régis Debray e tradotto in italiano da Andrea Pinotti per la recente edizione di Magonza del 2020, il volume esplora la complessa interazione tra immagine, società e coscienza collettiva attraverso una prospettiva storica che abbraccia millenni.
Con l’introduzione di Marco Pierini, il volume si arricchisce di un ulteriore livello di interpretazione contemporanea, utile per accogliere il pensiero di Debray, che rimane vivace e attuale anche a distanza di decenni.
Le riflessioni di Debray rappresentano strumenti inestimabili per decifrare la complessità del nostro tempo, e nonostante possano sembrare talvolta inattuali, hanno il merito di anticipare le sfide che il contemporaneo ci pone rispetto all’immagine e alla sua potenza simbolica.
Infatti, quest’opera, divisa in tre libri e dodici capitoli, attraversa il percorso storico dello “sguardo” e dell’immagine, individuando tre fondamentali momenti nella storia del visibile: lo “sguardo magico” che suscita l’idolo, lo “sguardo estetico” che genera l’arte e infine lo “sguardo economico” che dà vita al visivo moderno.
Questi stadi non rappresentano semplicemente modi di vedere, ma incarnano vere e proprie “organizzazioni del mondo”, attraverso cui la società ha compreso e strutturato la realtà.
Per un collezionista d’arte o un appassionato di storia culturale, possedere una copia di quest’opera è essenziale.
La profondità dell’analisi di Debray rivela come ogni epoca abbia attribuito valori diversi alle immagini e come queste corrispondessero alle strutture sociali e al contesto culturale del tempo.
Ciò è particolarmente rilevante nell’analisi della condizione dell’arte contemporanea, che secondo Debray ha perso gran parte della propria funzione simbolica, caratterizzandosi come un prodotto chiuso e spesso autoreferenziale.
Egli lamenta infatti la trasformazione dello sguardo collettivo e simbolico, che storicamente ha garantito vitalità e significato alle immagini, in uno sguardo privato e individualistico.
Questo passaggio è evidente nella “musealizzazione” delle opere d’arte: il trasferimento di immagini dal contesto comunitario (come le chiese) ai musei, dove vengono isolate dalle funzioni sociali e spirituali originarie per essere contemplate da una prospettiva esclusivamente estetica.
L’arte, nel contesto della riflessione di Debray, smette di essere una forza di coesione collettiva e diventa un’esperienza solitaria e personale.
Questo fenomeno, che lo stesso autore riconosce come inevitabile nella modernità, fa sì che l’arte contemporanea tenda a perdere quel ruolo che anticamente rendeva le immagini simbolicamente vive e rilevanti per l’intera comunità.
Anche l’analisi critica che Debray rivolge al ruolo dei media visivi moderni, nella cosiddetta “videosfera”, tocca un tema cruciale: la trasformazione dell’immagine in una sorta di “rumore” visivo, un elemento continuo e pervasivo ma privo di reale profondità, che rischia di soffocare l’immaginazione e di ridurre il ruolo dell’immagine a pura apparenza.
Un esempio iconico della complessità simbolica attribuita alle immagini, e che Debray stesso considera nel suo testo, è quello dell’arazzo di Guernica di Picasso, esposto presso le Nazioni Unite e coperto da un drappo blu nel 2003 per evitare che interferisse visivamente durante una dichiarazione sulla guerra in Iraq.
Questa censura simbolica rivela come le immagini possano ancora possedere un potere che trascende il loro tempo, trasmettendo messaggi universali e, talvolta, scomodi.
Debray riflette dunque sulla “contemporaneità di ogni immagine”, sottolineando come ogni rappresentazione possa parlare anche alle generazioni future, al di là del proprio contesto originario.
Per un collezionista, “Vita e morte dell’immagine” è un invito a considerare le opere non solo come oggetti estetici, ma come portatori di significati storici, sociali e simbolici.
Il testo di Debray è uno strumento per avvicinarsi all’arte con una consapevolezza nuova e più ampia, comprendendo come ogni immagine non solo rifletta il tempo in cui è stata prodotta, ma mantenga un dialogo aperto e continuo con il presente.
Il testo si conclude con 12 tesi sull’ordine nuovo, tra cui una fondamentale riflessione sul modo in cui ogni cultura definisce ciò che considera “reale”.
Secondo Debray, infatti, ogni civiltà è cementata da un consensus, una visione del mondo non cosciente che agisce come sistema di credenze, e che nel XX secolo viene etichettata come “ideologia”.
Questo consensus opera tramite un criterio di accreditamento della realtà, che ogni “mediasfera” costruisce e rinnova in funzione degli strumenti e delle tecniche dominanti dell’epoca.
La questione fondamentale diventa quindi: “di cosa fidarsi?”.
Da Platone a Descartes, fino alla moderna era delle immagini, le risposte a questa domanda sono determinate dalla logica della rappresentazione dominante.
L’autore esplora inoltre il valore simbolico dell’immagine nell’era contemporanea, analizzando il modo in cui le civiltà passate diffidavano del visibile, considerato un ostacolo alla comprensione del “vero” che si trova oltre le apparenze.
Nel passaggio dalla “logosfera” (mondo della parola) alla “videosfera” (mondo dell’immagine), si instaura una nuova ontologia del reale in cui “vedere” equivale a “credere”.
L’immagine, infatti, diviene prova e dimostrazione della realtà: ciò che è visibile è considerato reale e vero, mentre l’invisibile viene relegato all’irrilevante o all’inesistente.
In tal senso, Debray evidenzia come questa equivalenza tra visibile e reale potrebbe portare a un impoverimento dell’immaginazione e della capacità di critica.