A molti piace pensare che dopo il secolo dell’anti-economia, la produzione culturale sia entrata invece nell’epoca dell’industria culturale, ma è ancora presto. Molto presto. Lo abbiamo studiato con l’Italia, lo viviamo con l’Europa: non basta dare un nome nuovo ad una cosa perché d’improvviso si trasformi. Se, e sottolineo se, la produzione culturale ha davvero intenzione di assumere le forme di un’industria culturale, allora è necessario stabilire delle condizioni senza le quali tutto ciò è semplicemente una farsa, una politica di comunicazione utile agli statistici. La prima riguarda in primo luogo chi produce un bene o un servizio culturale, altre invece afferiscono allo scenario complessivo di riferimento.
L’esempio più semplice di produzione, per esempio quella di un dentifricio o di un bullone, si basa su un processo “a lavatrice”: l’impresa acquisisce da fornitori esterni materie prime, le rielabora per realizzarne un bene utile (si spera) alla società, e rivende il prodotto finito direttamente sul mercato. In questo processo l’impresa assume dipendenti, collaboratori esterni, sostiene dei costi di acquisto e riceve i ricavi di vendita. Tutti questi processi sono studiati, calcolati, documentati. Chi stabilisce di voler avviare un processo di produzione, restringe innanzitutto il proprio comparto di competenza (meccanica, oggettistica, alta tecnologia), poi, avvia quella che è comunemente noto come studio di fattibilità: si fa una ricerca di mercato, si individua la domanda, si stabiliscono i costi di produzione e di costituzione, si calcola il minimo volume di vendita perché l’impresa riesca quantomeno a coprire i costi, e se le stime di vendita sono superiori a quel processo, allora può avere senso avviare la produzione. Questo meccanismo è lo stesso sempre, per ogni tipo di produzione: ciò che varia sono le modalità attraverso le quali si riesce ad ottenere tali informazioni, e il caso della produzione culturale non fa eccezione. Ma come si fa a stimare una domanda culturale? Come si fa a monitorare esattamente quali sono i costi di produzione di un bene o servizio culturale, quali sono gli indicatori in grado di illustrare sinteticamente l’economicità (efficacia ed efficienza) di una produzione culturale?
La domanda di mercato si fonda sulla capacità di attrattività del bene/servizio che si intende realizzare: se si ritiene che il proprio output di produzione possa essere acquistato o fruito da un determinato target di popolazione (Giovani tra i 10 e i 25 che scoprono i propri gruppi preferiti su Youtube? Manager che non hanno il tempo di approfondire le proprie conoscenze in campo artistico, ma che vorrebbero entrare in contatto con il mondo dell’arte per esigenze personali o sociali?) si fa un’indagine per comprendere come sia formato questo target, quali caratteristiche abbia in media, quali siano i consumi rivali, quali siano i prodotti dei competitor, e si indaga (attraverso indagini campionarie, panel, etc.) quanto questo specifico target apprezzi l’output che si intende produrre, quali modifiche apporterebbe, etc. Non si tratta semplicemente di guardare la statistica di uomini e donne in età adulta all’interno di un bacino di popolazione (a esempio una città) per stabilire quale sia il target. Allo stesso modo i costi di produzione e i risultati dell’attività di impresa non possono essere semplicemente quelli considerati all’interno del bilancio come redatto ai fini civilistici. La produzione culturale inserisce nel proprio modello di business, fattori immateriali che non rientrano negli schemi del bilancio. Quindi, quando un’impresa culturale, dopo un periodo di esercizio, intende comunicare i propri risultati dovrebbe inserire all’interno delle misurazioni dei propri output anche quei valori immateriali sui quali si basa la propria produzione.
Facciamo un esempio concreto: se la produzione culturale consiste nell’erogare servizi di formazione ai bambini in età scolare, la reale sfida non sarà soltanto quella di ottenere il consenso dei genitori (che pagano il corso), ma anche di fornire ai bambini una formazione in grado di coinvolgerli, soddisfarli, divertirli. Un test realizzato ad intervalli stabiliti sui bambini cui tale corso è stato somministrato permetterebbe all’organizzazione di misurare e comprendere quanto del proprio lavoro ha assolto alla mission.
Prendiamo un altro caso: se si producono servizi destinati a migliorare le condizioni di vita di un quartiere disagiato, e tali servizi sono in parte finanziati da un organismo esterno, l’organizzazione che opera attivamente sul mercato non avrà problemi a condurre la propria attività. L’organismo esterno tuttavia, al fine di stabilire criteri di allocazione efficaci delle proprie risorse, dovrebbe poter disporre di informazioni utili. Trattare questi interventi come sperimentali potrebbe essere una soluzione: in questo modo l’organizzazione che ambisce a ricevere i fondi dovrebbe produrre una analisi di benchmark, indagare le condizioni di entrambi i quartieri, operare in uno di essi e tenere l’altro come “gruppo di controllo” e valutare se il proprio operato, a fine periodo di esercizio, sia stato in grado di migliorare le condizioni misurate prima dell’intervento. In questo modo l’organismo esterno sarebbe tutelato, e l’organizzazione potrebbe anche aumentare le richieste di finanziamento.
Tutti questi concetti possono essere riassunti nel concetto di accountability: essere accountable vuol dire essere in grado di rivendicare le proprie azioni perché si conoscono le condizioni iniziali che le hanno motivate e le conseguenze che hanno comportato. Attraverso indicatori dinamici le organizzazioni che operano all’interno della produzione culturale saranno in grado di conoscere esattamente il ruolo che esse svolgono all’interno della società. Saranno in grado di quantificare i benefici che esse apportano alla comunità, e potranno quindi avere un confronto concreto con altre industrie, e con la pubblica amministrazione. Saranno in grado di fare pressioni per ottenere politiche fiscali idonee e finanziamenti sulla base dell’efficienza gestionale e confrontarsi anche con quelle imprese che pur operando nello stesso cluster sono estremamente differenti per dimensione, output di produzione e volume d’affari. Accountability non è dunque un esercizio di stile: è la pietra miliare per fare del cluster delle Industrie Culturali e Creative un vero e proprio comparto industriale.