«Nella sua pittura c’è l’agilità e la competenza dell’incerto, la convinzione che non ci sia una sola verità, ma suggerimenti che nel durare di quell’attimo sanno annullarsi nel dubbio seguente, in un movimento continuo e innovante». Le parole di Viviana Duimio inquadrano in modo perfetto il lavoro di Gustavo Bonora che, assieme a Mino Ceretti, Claudio Olivieri, Giuseppe Guerreschi, Alik Cavaliere e Emilio Tadini, è stato uno degli artisti più significativi della scena artistica milanese degli anni Sessanta, caratterizzata da un dialogo serrato con New York e Londra. Una temperie in cui Gustavo Bonora si colloca in modo del tutto autonomo, operando una rilettura dell’Informale che si sviluppa attraverso l’applicazione della gestualità della pittura d’azione e della scrittura automatica a una ricerca artistica in cui l’immagine naturale, filtrata attraverso la memoria, diviene, come ha scritto il critico Renzo Beltrame, «un fatto psichico complesso» dove «altre immagini dell’ambiente originario, il ricordo di emozioni, di certi stati d’animo prevalenti in quei luoghi, ne corrodono le particolarità e vi si amalgamano sino a togliere ogni determinazione del luogo e del momento di prelievo». La sua vocazione, però, è più quella dell’intellettuale che non dell’artista tout court, e questo lo porta, negli anni, ad allargare la sua ricerca ad altri ambiti culturali, come la musica e la psicanalisi. Un’interpretazione del suo ruolo che lo porta ad una vita ai margini del Sistema: lontano dal mondo espositivo e dal mercato, senza per questo isolarsi dalla scena artistica milanese per la quale, invece, il suo studio diventa un punto di riferimento e di ritrovo, come oggi è la sua casa, sede dell’Associazione Culturale exfabbricadellebambole, dove lo abbiamo incontrato per una breve chiacchierata.
Nicola Maggi: Cominciamo dall’inizio. Milano, anni Sessanta. Che aria si respirava negli ambienti artistici del capoluogo lombardo in quegli anni?
Gustavo Bonora: «Erano anni di fervido scambio fra artisti anche di differente indirizzo. Tutte le gallerie erano punti di ritrovo di artisti e intellettuali, dove ci si incontrava e confrontava, si discuteva e nascevano progetti. C’era un clima ricco di idee e fermenti culturali che oggi non c’è più. Tramite la Galleria Solferino (diretta da Giovanna Fabre Repetto), oltre a una serie di mostre personali presso la sua galleria, partecipai alla Permanente di Milano e ad Arte Fiera di Bologna. Si collaborava con diverse gallerie che proponevano e lanciavano giovani artisti. La galleria Bergamini, per esempio, ha avuto il merito di ospitare e far conoscere il movimento del “Realismo Esistenziale”, nato nella metà degli anni Cinquanta da un gruppo di giovani artisti usciti da poco da Brera che si confrontava, in una dialettica intellettuale e artistica, su una ricerca non dell’arte per l’arte, o destinata al settore mercantile, ma per l’esigenza di approfondire, attraverso lo sguardo sull’uomo, la realtà fenomenica e la complessità esistenziale ed intellettuale. Ne facevano parte Mino Ceretti, Bepi Romagnoni, Giuseppe Guereschi, Floriano Bodini e altri. Compagni di viaggio con cui ci si confrontava anche in un ideologismo impegnato e letture di Sarte, Camus, Husserl. Il cinema e il teatro, la musica, erano sempre motivi di ispirazione e di sperimentazione ».
N.M.: In quello stesso periodo inizia a definirsi il tuo percorso artistico: prima negli ambienti di Società Nuova e, dagli anni Settanta, attorno alle gallerie milanesi più attente ai nuovi sviluppi dell’arte contemporanea. Come si stava evolvendo la tua ricerca artistica? E come dialogava con le correnti e i movimenti artistici (nazionali ed internazionali) di allora?
G.B.: «Era molto precisa. Gli anni Settanta per me furono il momento della svolta verso l’[glossary_exclude]astratto[/glossary_exclude]. Il tableau diviene l’occasione [glossary_exclude]metafisica[/glossary_exclude], con ciò che comporta di costruttivo, non senza il rischio della dispersione: ogni costrutto è un evento di emozionalità, allora l’impegno culturale e di esplorazione [glossary_exclude]concettuale[/glossary_exclude] nei vari ambiti intellettuali (linguistica, psicoanalisi, etc.) diviene tassativo. Il clima era quello che ho descritto. Si passava delle “epopee contadine” al disagio del dopo guerra, la voglia di costruire, realizzare, fare qualcosa di diverso, di nuovo, contro corrente, la scoperta di Francis Bacon e poi, appunto, la musica, il jazz, i concerti, tutto contribuiva a far nascere idee, a dialogare, trovare spazi e ispirazioni diverse.”
N.M.: Poi arriva l’incontro con la psicanalisi. Cosa cambia nel tuo approccio all’arte e nel tuo modo di interpretare il ruolo di artista?
G.B.: «La cattura intellettuale e, in particolare, la psicoanalisi, come pratica, mi distacca dall’ambito artistico e promozionale. La psicanalisi è stata una scelta nata da quel clima impegnato e di crescita personale – non solo artisticamente parlando -, bensì di un’esigenza d’approfondimento che piano piano ha preso il sopravvento, studiando e approfondendo prima Sigmund Freud e poi con l’incontro con Jacques Lacan. Ciò non di meno, mi resta il tempo di lavorare, con l’esito di una cospicua produzione, ma anche di un profondo isolamento dal sistema mercantile, mentre il mio studio diviene luogo di un’assidua frequentazione d’artisti, intellettuali e musicisti (Emilio Tadini, Gianfranco Pardi, Attilio Forgioli, Mino Ceretti, Inez Klok, Davide Mosconi e altri), con l’esito paradossale di una certa notorietà e successo nell’ambito soprattutto musicale. E’ in quegli anni che, assieme a Davide Mosconi (piano), Enzo Gardenghi (saxtenore) e Marco Cristofolini (percussioni), abbiamo inciso un vinile per la RCA a cui è seguita una serie di concerti in teatri importanti come il Manzoni, il Teatro Uomo o il Centro Lepetit. Questo riconoscimento mi gratificava e gli aspetti economici venivano soddisfatti dalla professionalità psicoanalitica più che dal mercato dell’arte, ma a quei tempi si vendeva: molte mie opere sono disseminate ovunque».
N.M.: Oggi lavori al fianco di tanti giovani artisti. Che opinione hai del nuovo corso che ha preso il Sistema dell’Arte, così sbilanciato verso gli aspetti economici?
G.B.: «Il nuovo sistema dell’arte è impostato sulla centralità di un potere completamente estraneo al vissuto dei soggetti per cui i giovani devono soggiacere a dei criteri verticistici e dipendenti dal sistema dell’arte presieduto dai finanzieri e dall’élite di una critica mercantile. Il mercato esiste ma è gestito esclusivamente dalle aste il cui criterio è quello dell’arbitrarietà».
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