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Restauro e riscoperta.

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Storia breve dell’inaudito Caravaggio Genovese

La “riscoperta” di Caravaggio fu consacrata con la celebre mostra del 1951 curata da Roberto Longhi nelle sale del Palazzo Reale di Milano. Un evento iconico, all’epoca benedetto dal successo di critica e di pubblico, a cui seguì la pubblicazione del saggio monografico dello stesso Longhi, un classico della letteratura artistica che fece luce anche sulle ombre della personalità del grande pittore milanese.

Una storia risaputa e giustamente celebrata. Meno conosciuta, sicuramente, è la figura di Pico Cellini, eclettico restauratore romano che in quegli anni contribuì, in sinergia con lo stesso Longhi, a far emergere il valore soprattutto tecnico della pittura del Caravaggio.

Pico Cellini fu un personaggio che definirei, con Curzio Malaparte, «arcitaliano», uno di quegli italiani tanto brillanti e di successo da suscitare al contempo stima e invidia. Fu figlio d’arte in quanto il padre era stato conservatore presso l’Accademia di San Luca di Roma, la mitica associazione di artisti fondata da Federico Zuccari nella seconda metà del Cinquecento.

In una raccolta di suoi scritti, “Falsi e restauri”[1], Cellini dice di sé di essere stato il primo restauratore italiano ad aver usato con coscienza i metodi della diagnostica scientifica nel contesto di un mestiere ancora molto improntato all’empirismo e al sentimento. Siamo negli anni Trenta, ancor prima della fondazione dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma in favore della quale si dà, peraltro, qualche merito.

Tale approccio, unito a una grande conoscenza tecnica e a un occhio sensibilissimo, fece di lui un micidiale scovatore di falsi, nonché un attendibile giudice per la riattribuzione di opere erroneamente attribuite. In questo senso, il suo curriculum è molto vasto ma, su tutti, spicca il caso del presunto “Ecce Homo” di Caravaggio del museo di Palazzo Bianco di Genova, una storia che lo vide protagonista assieme al Longhi e alla direttrice Caterina Marcenaro.

Procediamo con ordine. Alla mostra milanese del 1951, Longhi aveva esposto un dipinto proveniente da Messina ritraente un “Cristo con Pilato e un manigoldo”, “copia «cruda» ma abbastanza fedele da un’opera tarda del maestro”. Di quale “opera tarda” si trattasse, però, Longhi all’epoca non sapeva dire.

Nel 1944, era successo che Genova fosse barbaramente bombardata dall’aviazione britannica. In quel contesto, era stata colpita anche la Scuola Navale, da tempo usata come deposito di alcune opere provenienti dai musei civici, tra le quali una tela raffigurante un “Ecce Homo”: una copia di poco conto attribuita, sin dal Seicento, a Lionello Spada, buon pittore bolognese, ahilui eloquentemente soprannominato “Scimmia del Caravaggio”.

La tela fu miracolosamente ripescata dalle macerie, sofferente ma sufficientemente conservata per poter suscitare un lento ma vivo interesse nella direttrice Marcenaro, che, alla mostra del 1951, vedendo l’identico “Cristo con Pilato e un manigoldo” di Messina, intuì che quella copia ricoverata nel proprio museo fosse, invece, qualcosa di molto importante.

A quel punto entrò in scena la perizia di Pico Cellini, a cui venne affidato il restauro. Il referto dell’intervento, pubblicato nel 1954, è interessantissimo. Ne riporto qualche stralcio:

“Quando mi è stata affidata, la tela […] era priva di telaio, ma uno spesso «beverone» la sosteneva rigida come una tavola, impedendole di piegarsi, sicché si mantenne ritta anche quando da ultimo venne a perdere il telaio originale. Il beverone era composto di litargirio, ocra rossa ed olio di lino, incorporati a fuoco; e così, a bollore, versato abbondantemente sul dietro del dipinto e tirato a cazzuola, come un intonaco sottile, per tutta la tela fin sotto il telaio e la traversa”.

“Una volta consolidato, spianato e teso il dipinto su di un più ampio telaio provvisorio, ne ho curato personalmente la pulitura sotto le lenti e con solventi volatili. Successivamente, sulla scorta della nota copia dell’«Ecce Homo» conservata nel Museo Nazionale di Messina, ricavai la proporzione dei margini da ridare convenientemente al dipinto, e questa fu un’opera di particolare riflessione, alla quale non furono estranei, col consiglio, la dottoressa Caterina Marcenaro, che seguì ogni fase del lavoro, e il professor Roberto Longhi”.

Cellini e la Marcenaro erano certi che sotto una brutta scorza ci fosse un Caravaggio autentico e non una copia, giunto in qualche modo a Genova dalla Sicilia o forse originariamente eseguito dal Caravaggio proprio in Liguria.

Roberto Longhi sottoscrisse l’ipotesi in un articolo del 1954 dal titolo “L’«Ecce Homo» del Caravaggio a Genova”[2]: “A restauro compiuto, l’opera è rientrata sollecitamente in sede e il patrimonio artistico genovese si ritrova inaspettatamente aumentato di un capolavoro del Caravaggio. […] Il recuperato originale, uno dei più commoventi che ci siano pervenuti del maestro, […] fa riaffondare nel limbo delle copie la tela di Messina e le sue simili”.

Una sentenza che suona come una consacrazione, nonostante ancora oggi, e con qualche ragione, più di una voce la contesti. Bene che sia così, naturalmente: l’attribuzionismo per definizione non è una scienza esatta.

A noi interessa considerare, piuttosto, come un’eccellente sinergia tra critica e restauro abbia saputo creare valore laddove quasi non ce n’era: da una “crosta” attribuita alla “Scimmia del Caravaggio”, a un capolavoro attribuito al maestro stesso.

Il lavoro critico sul Caravaggio di Longhi e dei tecnici come Cellini che con lui collaborarono ha cambiato sia la storia dell’arte che quella del mercato dell’arte. Una combinazione che si è spesso ripetuta nel corso dei secoli: già nel Settecento Winckelmann e lo scultore-restauratore Bartolomeo Cavaceppi avevano assieme contribuito alla creazione del collezionismo di gusto neoclassico.

Quando nel 1928 Caravaggio era ancora sostanzialmente considerato un mero esecutore di dettami pittorici controriformistici, Roberto Longhi poteva permettersi di acquistarne un dipinto, il “Ragazzo morso da un ramarro” ancora oggi nella sua collezione sui colli a Firenze.

Solo trent’anni più tardi, l’artista non era certamente più alla portata del suo portafoglio. Questo lo ritengo un fatto piuttosto significativo.

[1] ‘Falsi e restauri. Oltre l’apparenza’, Pico Cellini, 1992, Archivio Guido Izzi,

[2] ‘L’«Ecce Homo» del Caravaggio a Genova’, Roberto Longhi, in ‘Paragone’, 51, 1954, pp.3-13

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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