Project Marta – Monitoring Art Archive è un servizio che ho presentato nel gennaio 2017, il cui fine ultimo è quello di produrre per ogni opera d’arte contemporanea una scheda tecnica – un libretto di istruzioni – che raccolga al suo interno tutte le informazioni utili a conoscere in profondità le opere d’arte, per allestirle, conservarle, trasportarle ed eventualmente restaurarle in maniera corretta e sicura.
Il centro nevralgico del servizio risiede nelle interviste ad artista, e quella che si vuole condividere con i lettori di Collezione da Tiffany questo mese riguarda il lavoro di Gianfranco Botto (1963) e Roberta Bruno (1966), duo artistico torinese che fin dai primi anni ’90 si esprime soprattutto attraverso la fotografia, i video e le installazioni. Famose e inconfondibili le loro visioni di periferie urbane dai cieli cupi, caratterizzate da edifici dismessi e luoghi degradati, in cui la presenza umana ha conquistato un suo spazio a fatica dopo aver abbandonato e distrutto, e dove nessuna fisionomia è riconoscibile. Spesso allestiti sotto forma di grandi wallpaper che rivestono per intero pareti e pavimenti degli spazi espositivi – come pure nel caso della mostra attualmente in galleria da Alberto Peola, a Torino, e visitabile fino al 23 dicembre 2017 – i lavori di Botto & Bruno raffigurano condizioni esistenziali in equilibrio precario tra squallore e bellezza, inquietudine e speranza.
Una delle opere su cui ha lavorato Project Marta è intitolata Society, you’re a crazy breed, un progetto concepito come un’unica grande installazione all’interno di un ampio spazio espositivo, la Fondazione Merz di Torino, un centro di cultura che ha invitato gli artisti a relazionarsi con la sua storia, mettendo a confronto la loro ricerca artistica con il suo vissuto industriale e dismesso. (Leggi -> Society, you’re a crazy breed: Botto & Bruno alla Fondazione Merz)
Society, you’re a crazy breed è stato presentato nel 2016, si è trattato di un progetto inedito concepito come un’unica grande installazione, allestita in occasione di una personale alla Fondazione Merz. Come si lega questo progetto al vostro percorso artistico? É a sua volta un’evoluzione di dialoghi impostati partendo dal medesimo presupposto?
Bruno: «Il progetto è nato dall’invito fattoci da Beatrice Merz. Abbiamo accolto con entusiasmo questa proposta. L’architettura dove ha sede ora la Fondazione mi ha sempre ricordato i trascorsi della mia infanzia, ci passavo davanti quando ero piccola, l’idea di tornarci da adulta mi ha affascinato. Abbiamo cercato innanzitutto di capire il quartiere, cosa è diventato negli anni, perché quando ero piccola era un quartiere operaio mentre oggi ha perso molto della sua identità. Lo stesso principio di ricerca di tracce l’abbiamo applicato alla Fondazione, la prima cosa che ci ha colpito sono state le impronte delle cisterne di raffreddamento che s’incontrano all’ingresso, nel cortile. Abbiamo pensato “perché non farle riaffiorare?”. Iniziando a studiare le fotografie che avevamo scattato nel corso degli anni abbiamo avuto la conferma che il paesaggio non solo era mutato ma aveva subito un processo di distruzione identitario molto pericoloso dove, al contempo, la natura stava cercando di riappropriarsi degli spazi a lei negati per molto tempo. Far riaffiorare la cisterna all’interno della fondazione e farla diventare un luogo quasi spirituale dove all’interno la natura aveva completamente ripreso il sopravvento sull’architettura ci è sembrato un interessante punto di partenza che poteva funzionare in quel contesto. Abbiamo fatto costruire anche altri due elementi architettonici tridimensionali: il muro ed il cinema».
Botto: «Il cinema di quartiere è una realtà che accomuna i ricordi d’infanzia di entrambi, quando i genitori ci portavano a vedere i film. Abbiamo ipotizzato che probabilmente era esistito un cinema Lancia nel quartiere, lo abbiamo ricostruito a memoria con ricordi miei e di Roberta ed all’interno non abbiamo proiettato nostri video ma spezzoni di film che sono stati importanti nel nostro percorso di lavoro e di vita. Abbiamo lasciato spazio a un solo sguardo umano accettabile, quello dei bambini, quindi la scelta è stata di François Truffaut con i 400 colpi, di Abbas Kiarostami con II pane ed il vicolo e di Ken Loach con Kes. Tre modi di raccontare l’infanzia. Abbiamo montato solo i frame dove i bambini erano unici protagonisti ed abbiamo cambiato la musica originale con un nostro sonoro fatto in collaborazione con Bartolomeo Migliore. Il tentativo della mostra è stato quello di creare un equilibrio tra questi due aspetti: l’aspetto di denuncia e l’aspetto lirico che devono sempre andare di pari passo: la poesia in certi luoghi esiste, è solo più difficile da trovare ed è nostro compito portarla alla luce».
Mi avete raccontato come la vostra ricerca nasca dallo scatto fotografico su pellicola di luoghi che catturano il vostro interesse, mentre il lavoro è in parte analogico e in parte prevede una componente manuale, perché assemblate i fotogrammi scelti creando un collage di frammenti di realtà. Come organizzate il vostro archivio, a livello mentale e a livello pratico? Vi ricordate di un viaggio, una sensazione, uno scorcio o punto di vista e partite da quella cartella di immagini, oppure suddividete il vostro materiale in file più specifici?
B.&B.: «Il nostro archivio fotografico – le foto già stampate e i negativi – è organizzato a livello tematico, ad esempio sezione cieli, terreni, architetture, nuvole, figure etc, mentre non è organizzato a livello temporale. Ovviamente il ricordo gioca un ruolo in questo processo ma normalmente ci muoviamo per aree: quando abbiamo bisogno di terreni apriamo quel fascicolo e analizziamo il contenuto, iniziando a selezionare le immagini. Considera che in media – per lavori più imponenti come Society, you’re a crazy breed – siamo arrivati ad utilizzare 800-900 stampe fotografiche. Incominciamo da piccoli particolari, anche solo un filo d’erba, un pezzo di architettura o di cielo, che vengono ritagliati e assemblati per ricostruire nuovi spazi. Sappiamo cosa vogliamo raccontare quando iniziamo questo processo, ma non sappiamo che immagine ne verrà fuori, ogni particolare ne chiama un altro. Disegniamo anche moltissimo, il nostro archivio è molto vasto: oltre alle fotografie ci sono stampe e ristampe in vari formati, collage, ritagli di giornale, componenti che utilizziamo anche in maniera indipendente dalle fotografie. Lavoriamo sull’idea dell’accumulo quindi conserviamo riviste che parlano di cinema, musica, tematiche ambientali».
Una volta individuate le immagini da assemblare create personalmente la matrice – quelle che avete definito come un bassorilievo – formata da tanti frammenti di fotografie. Si può dire che questo è un più di un bozzetto, l’originale che darà vita all’installazione?
B.&B.: «Esatto, ed è ciò che rimane a noi. A volte la matrice è anche il lavoro finale, ma è raro. La matrice delle installazioni rimane nel nostro archivio. Oltre a questa matrice ci sono i file di stampa ed altra documentazione, però se mai succedesse qualcosa per cui il digitale andasse perso, questo è quello che ci permetterebbe di salvare l’opera. Oltre a questa matrice abbiamo anche i modellini che facciamo manualmente con il cartoncino, tridimensionali che ci servono per visualizzare meglio il progetto. Essendo lavori che non possono essere montati precedentemente in studio la percentuale di errore è sempre presente, ma è proprio questo l’interessante perché abbiamo sempre qualcosa da scoprire del lavoro anche durante l’allestimento».
Questo lavoro richiede una cura e un tempo adeguati, sia per la progettazione che nell’allestimento del wall paper. Mi avete parlato di 6-8 mesi di lavoro, ricordo bene? Più o meno come sono suddivisi?
B.&B.: «Ha richiesto quasi 8 mesi di lavoro e poi due settimane di montaggio, 10 ore al giorno con alcuni assistenti».
Society, you’re a crazy breed è un’installazione site-specific, un pezzo unico e dunque non verrà esposta in una seconda occasione, ma è mai capitato che altre matrici di vostri lavori siano servite per una o più ristampe? Potrebbe succedere in futuro?
B.&B.: «E’ praticamente impossibile riutilizzare un lavoro site specific pensato appositamente per uno spazio. Quando lavoriamo su di uno spazio il lavoro viene pensato come una sorta di seconda pelle che deve calzare al centimetro. Dunque non sarebbe possibile riadattarlo. Preferiamo, ogni volta che ne abbiamo la possibilità, lavorare su di uno spazio progettando un nuovo lavoro che rifletta le suggestioni che quel luogo ci ha dato».