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Quale Domani per l’arte contemporanea: intervista a Demetrio Paparoni

del

Siamo in molti ad aver seguito il lavoro di Demetrio Paparoni sulle pagine di Tema Celeste, la rivista che ha fondato nel 1983, diretto fino al 2000 e che ha costituito un appuntamento immancabile per gli appassionati d’arte. 

Il suo ultimo libro, Arte e poststoria, edito a Neri Pozza, raccoglie le sue conversazioni con Arthur Danto, filosofo e critico d’arte americano da molti considerato il più importante degli ultimi cinquant’anni, certamente il più citato. Un libro particolarmente interessante sia per le conversazioni con Danto, ma anche per l’ampia prefazione che spiega le tesi sull’arte del filosofo.

Adesso Paparoni cura la pagina che ogni domenica il nuovo quotidiano Domani dedica all’arte.  Qui ha pubblicato articoli che sono veri e propri saggi su David Salle, George Shaw o Kerry James Marshall, mostrando una particolare attenzione alle reazioni all’elezione truffa del presidente Lukashenko in Bielorussia, all’auto censura dei musei americani, alla scarsa presenza femminile nelle collezioni dei grandi musei. Quanto basta per farla diventare l’appuntamento domenicale fisso per quanti seguono i fatti dell’arte.

George Shaw, Love and Death on a Sunny Day, 2018. Humbrol enamel on board. 92 x 121 cm. Courtesy: The Artist and Anthony Wilkinson Gallery, London

Roberto Brunelli: Considerato l’interesse che sta suscitando la prima domanda è d’obbligo: com’è nata la sua collaborazione con il quotidiano Domani?

Demetrio Paparoni: «Prima ancora che il quotidiano uscisse ho ricevuto un’e-mail nella quale mi si chiedeva se ero interessato a scrivere un pezzo sulla vita privata di Andy Warhol. Un testo lungo, quasi un breve saggio. L’ho scritto e da lì la collaborazione è subito diventata continuativa».

R.B.: Si avverte che a questa collaborazione ci tiene…

D.P.: «Domani ha una redazione composta da giovani. Il suo direttore, Stefano Feltri, è il più giovane direttore di quotidiano che ci sia in Italia. Mi trovo bene a lavorare con loro, mi trasmettono energia e comunque ho subito capito che questa esperienza poteva darmi molto».

R.B.: In che senso?

D.P.: «Potrei scrivere ogni settimana ma, in accordo con la redazione ovviamente, ho ottenuto che la pagina ospitasse anche scritti segnalati da me. Questo mi porta a studiare argomenti che diversamente, magari, non avrei approfondito per questioni di tempo. Il registro che implica scrivere un articolo su un quotidiano non è lo stesso che usi per  un libro, per una monografia o per un catalogo. Sai che devi raggiungere persone che non sono necessariamente degli addetti ai lavori.  Lo sforzo non è solo quello di dare informazioni che possano stimolare un dibattito, aprire su argomenti interessanti, è anche quello di trattare questi argomenti, perlopiù complessi, in maniera chiara, accessibile a tutti». 

Kerry James Marshall, Past Times,1997. Acrylic and collage on unstretched canvas. Courtesy: Sotheby’s

R.B.: In una lettera aperta inviata a quanti seguono i libri della casa editrice Skira, Stefano Feltri ha scritto che ogni domenica lei coinvolge “i più grandi artisti e intellettuali da tutto il mondo per parlare di arte, politica e immaginario in un modo fuori dagli schemi” e che presto Domani realizzerà un intero numero speciale dedicato all’arte…

D.P. : «Sono decisioni a cui sono estraneo. Ovviamente non può che farmi piacere constatare quanta attenzione Domani rivolga alla cultura in generale. Ricevo molte e-mail e messaggi di persone che seguono la pagina domenicale dedicata all’arte, ma sempre più questi messaggi sono accompagnati da commenti positivi nei confronti del quotidiano nel suo insieme».

R.B.: Ancora Feltri ha scritto che il quotidiano ha scelto – cito testualmente – “di pubblicare articoli lunghi, con grandi immagini che valorizzano fotografi e artisti, per restituire a chi compra giornali di carta il piacere della lettura e anche a chi legge in digitale un’esperienza culturale importante, tanto più necessaria quanto più il mondo dell’informazione si trova intasato di polemiche da social network e fake news”.

D.P. : «Mi piace molto scrivere su un quotidiano che muove da questi presupposti».

JR, Omelia contadina, Iris Pulvano, 2020, installazione alla Galleria Continua, San Gimignano. Courtesy: JR e Galleria Continua Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

R.B. : Lei invia una newsletter ogni domenica mattina, nella quale informa su cosa troveremo quel giorno nella “sua pagina”…

D.P.: «Internet oggi offe la possibilità di raggiungere un ampio numero di persone. Ho diretto una rivista per vent’anni, so bene quant’è difficile fare in modo che le persone ti seguano sulla carta stampata».

R.B.: Da anni ormai si dedica alla curatela e alla pubblicazioni di libri e monografie.

D.P.: «Continuerò a farlo, ovviamente».

R.B.: Lei su Tema Celeste si è occupato molto dell’arte degli anni Ottanta. Cosa ricorda di quel periodo?

D.P. : «Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta era chiaro a tutti, anche a un neofita com’ero io allora, che in arte era in atto una  svolta. Che le diverse forme di concettualismo fossero ormai prive di energia era evidente a tutti. Ci si aspettava qualcosa di nuovo, qualcosa che fosse capace di rivitalizzare la scena dell’arte. Questo qualcosa di nuovo in Italia – contrariamente a quanto avveniva negli Stati Uniti – fu individuato solamente nella pittura.  Non va dimenticato che negli Usa quegli sono gli anni di artisti cone Cindy Sherman, Sherrie Levine, Richard Prince, Robert Mapplethorpe, giusto per fare qualche nome. Non sono stati solo gli anni di pittori come Julian Schnabel, David Salle o Ross Bleckner. Artisti come Jeff Koons o Peter Halley, nella loro diversità, c’erano già negli anni Ottanta».

Demetrio Paparoni con Arthur C. Danto (New York, 2012)

R.B. : Quali sono i motivi per cui non hanno avuto tutti i riconoscimenti che forse avrebbero meritato e perché la scena italiana, a parte pochissimi casi, è rimasta emarginata da quella internazionale?

D.P. : «In Italia sembrava esistesse solo la pittura. Inoltre, mentre negli USA si dava per scontato che era in atto una sorta di “liberi tutti” – ben teorizzato peraltro da Arthur C. Danto – qui da noi la critica si attardava su una visione leaderistica desueta. Negli USA gli artisti non erano interessati a far gruppo, tanto meno  a sentirsi rappresentati da un critico – com’era successo in Francia con Breton negli anni Trenta, che dava voce ai Surrealisti, o negli Usa con Clement Greenberg, che dava voce all’Espressionismo astratto. Questo fenomeno si estese negli anni Sessanta: Germano Celant dava voce ai poveristi, Pierre Restany  ai nouveau realists, per esempio».

R.B.: Entriamo ora nello specifico dei nostri anni Ottanta…

D.P.: «Da noi negli anni Ottanta è stato un fiorire di gruppi capitanati dalla figura del critico leader. Oltre alla Transavanguardia di Bonito Oliva, per quel che ricordo c’erano i Nomi Nuovi di Barilli, la Pittura Colta di Maurizio Calvesi, il Magico primario di Flavio Caroli e altro ancora. Sicuramente dimentico qualche gruppo. Peccato che quella visione, in un momento segnato dall’avvento del postmodernismo in arte, fosse del tutto anacronistica. E i risultati si sono visti. Basti pensare che il termine “transavanguarda” all’estero lo ricordano in pochi, mentre tutti conoscono quello di Arte Povera o di Nouveau Realism. Anche in Germania e in Francia c’erano diversi gruppi al seguito di un critico leader. Ben diversa la situazione in Gran Bretagna. Con chi avrebbero potuto far gruppo artisti come Anish Kapoor, Tony Cragg o Antony Gormley? La loro solitudine è stata la loro forza».

R.B.: Pensa che se gli artisti italiani delle ultime generazioni avessero saputo far gruppo avrebbero avuto maggiore visibilità a livello internazionale? 

D.P. : «No. Far gruppo non aiuta. Inoltre la visibilità internazionale si conquista sul campo con la qualità del lavoro. È vero che far gruppo può essere una buona strategia di marketing per far emergere qualcuno: si lascia intendere che ci sono molti artisti che muovono tutti nella stessa direzione e poi successivamente si individuano (sempre che non si sapesse prima) chi deve “emergere”. Tutti gli altri vengono così sacrificati per far posto a pochi nomi. Questa la situazione».

Nicola Samorì, Lucia, 2020. Olio su onice. Courtesy: l’artista

R.B.: Come immaginavi la figura del critico d’arte e come l’hai interpretata personalmente?

D.P.: «Io non ho mai pensato al critico come al maestro che tira una linea alla lavagna e scrive i nomi dei buoni da una parte e dei cattivi dall’altra. Mi sono appassionato al lavoro di alcuni artisti prima che diventassero famosi e li ho seguiti. Con alcuni sono stato e sono ancora oggi amico, di altri ho seguito il lavoro senza averci un vero rapporto. Ma ho sempre avuto rispetto per il lavoro di tutti. Mi spiace che ci siano artisti che si sono sentiti ignorati. Per questo, pur avendo una mia idea rispetto alla sua domanda non farò nessun nome. Ne dimenticherei sicuramente qualcuno. Concludo con una considerazione: alla fine della fiera gli artisti il cui lavoro aiuta a definire un decennio non sono in molti. Non c’è sufficiente spazio nei libri di storia dell’arte. Non può sorprendere che in tutto questo siano in tanti quelli sacrificati per far spazio a pochi».

R.B. : Pensa che l’idea di proporre al Ministero della Cultura una mostra da realizzare in uno spazio istituzionale, magari in concomitanza con la Biennale di Venezia, che possa dare un’informazione più completa e obiettiva di quegli anni sia una buona idea? Lei darebbe la sua disponibilità a costituire un comitato di curatori che stabilisca le linee del progetto?

D.P. : «No, non darei la mia disponibilità perché in questo momento ho altri interessi. Una revisione degli anni Ottanta, perché sia oggettiva, spetta ai giovani critici, non a quelli della mia generazione, che hanno avuto un ruolo in quegli anni».

R.B.: Un’ultima domanda. Di cosa si occuperà questa domenica su Domani?

D.P.: «La pagina sarà dedicata a Nicola Samorì e raccoglie anche testimonianze dell’artista. Ho scritto io il pezzo. È un artista che apprezzo molto da parecchi anni».

Roberto Brunelli
Roberto Brunelli
Forlivese, classe 1972, autore, critico d'arte e curatore di mostre, Roberto Brunelli è annoverato tra i massimi esperti della generazione anni ‘60 italiana ai quali ha dedicato “Anninovanta 1990-2015. Un percorso nell'arte italiana”. È inoltre coautore di “Investire in arte e collezionismo” e di “Chi colora Nanù?". Nel 2011 è stato tra i promotori di ShTArt - Manifesto del collezionismo 2.0 e della omonima mostra tenutasi a Milano.

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