Nella vita di un giornalista ci sono alcune interviste che hanno un sapore tutto particolare. Questa è una di quelle. Ho conosciuto Luigi Presicce nel 2011, quando ha vinto la seconda [glossary_exclude]edizione[/glossary_exclude] del premio Talenti Emergenti indetto dal Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze. Nato nel 1976 a Porto Cesareo, Luigi basa il suo lavoro sulla realizzazione di performance che uniscono teatralità e ritualità in un costante riferimento alla cultura e all’iconografia popolare e alla ricerca di una dimensione [glossary_exclude]metafisica[/glossary_exclude] e irreale. A distanza di due anni, cogliendo l’occasione dell’uscita della prima [glossary_exclude]monografia[/glossary_exclude] dedicata alla sua opera, ci siamo risentiti per una lunga intervista sul suo lavoro e la sua carriera. Ne è uscito un racconto che dimostra come, nell’arte, si può avere successo anche (e soprattutto) rompendo gli schemi preconfezionati di un mercato che spesso sottomette gli artisti emergenti e dove il [glossary_exclude]curatore[/glossary_exclude] è la nuova figura egemone.
Nicola Maggi: So che, in questo periodo, sei molto impegnato e ti ringrazio per il tempo che mi dedichi. A cosa stai lavorando?
Luigi Presicce: «La questione è che non mi fermo mai. Il mio metodo è lo studio continuo, spesso, come in questo periodo, finalizzato a realizzare nuove performance come L’invenzione del Busto, La certifica delle mani o concludere opere già iniziate come Si sedes non is (con Jonatah Manno) e In hoc signo vinces».
N.M.: Quando ci siamo sentiti la prima volta, nel 2011, avevi appena vinto il premio Talenti Emergenti. Cosa è cambiato dopo questo riconoscimento?
L.P.: «Intanto, grazie al premio, ho potuto pubblicare una splendida [glossary_exclude]monografia[/glossary_exclude] che raccoglie una ricca selezione di miei lavori dal 2009 al 2012, uno strumento utile per chi, a giusta ragione, non conosce le mie opere, difficili da vedere o che a volte rimangono per lungo tempo senza vedere la luce, seppur realizzate. Credo che la scelta di premiare il mio lavoro in quel contesto e con quella rosa di nomi, sia stato un modo di identificare un orientamento preciso da parte della giuria internazionale (Barbara Gordon, Adam Szymczyk, Achim Borchardt-hume) e della direttrice Franziska Nori, che ha voluto focalizzare l’attenzione su una ricerca fuori dal coro e su un artista autodidatta che attua la sua pratica a prescindere dal sistema dell’arte e dalle sue regole. Non so dire cosa sia cambiato, ho sempre avuto molta considerazione e rispetto da parte dei miei colleghi artisti, dal pubblico e dalle riviste. L’interesse nei miei confronti è stato sempre alto, anche quando dirigevo il Brown project space a Milano o tutti gli altri progetti nei quali ero e sono coinvolto (Archiviazioni, Lu Cafausu). Ora, dopo sette anni, lavoro di nuovo con una galleria (Galleria Bianconi, Milano) e questo mi ha permesso di entrare in diverse collezioni pubbliche come Unicredit/MAMBO, Deutsche Bank, ma non credo dipenda solo dal premio del 2011, anche perché nel frattempo ne ho vinti altri e in definitiva non mi sono mai fermato».
N.M: Il tuo lavoro è caratterizzato da una simbologia molto complessa, in cui si uniscono religione, massoneria, iconografia medievale. Il tutto con un netto rimando anche alla cultura popolare, che denota un forte legame con la tua terra di origine, il Salento. Ci puoi raccontare il processo gestazionale che porta alla nascita delle tue performance?
L.P.: «Questa gestazione non ha un metodo o delle strutture che la determinano, come neanche delle volontà. La mia necessità è finalizzare un ciclo di studi attraverso la realizzazione di una o più performance, ma per fare questo non si può parlare di lavoro metodico finalizzato. Il mio sistema di lavoro è accumulare informazioni sugli argomenti più disparati che diventano una stratificazione ricca e complessa. Da questo luogo nella memoria scaturiscono, sotto la sollecitazione di un posto, un personaggio o una storia, una serie di immagini che si combinano e riemergono compulsivamente, dando vita a quello che poi sarà un impianto scenico-narrativo fatto di simboli e figure allegoriche digerite nel tempo. Non riesco a progettare a comando, sono sempre distratto da altro, aspetto che quello che deve uscire, esca in maniera spontanea e nei momenti più diversi».
N.M: In questo processo, un ruolo particolare è giocato da alcuni luoghi che diventano elementi centrali del tuo linguaggio, quasi dei nuovi “simboli”. Penso, ad esempio, a Lu Cafauso di San Cesareo, che compare in diversi dei tuoi lavori. Quando avviene questa trasfigurazione da luogo reale a metafora?
L.P.: «Lu Cafausu è un progetto a se stante che esisteva già, io ne faccio parte dal 2010. Cesare Pietroiusti, Luigi Negro, Emilio Fantin e Giancarlo Norese avevano iniziato la loro attività insieme molti anni prima, a partire dal Gruppo Oreste, poi diventato appunto Lu Cafausu. La struttura architettonica del ‘700 che determina il nome del progetto, entra a far parte anche di uno dei quattro episodi de Il grande Architetto (2011), ma è ancora una volta una metafora della costruzione del Tempio di Salomone al quale tutto il lavoro si ispira».
N.M.: Un ruolo importante, inoltre, è quello svolto dal pubblico sia rispetto al tempo che allo spazio delle tue performance. Un rapporto, quello tra te e chi assiste, che nel tempo è divenuto sempre più selettivo. Ce ne puoi parlare?
L.P.: «Non sono io a essere diventato più selettivo, è lo spettatore che cerca nell’arte una forma di intrattenimento e questo proprio non si sposa con la dimensione liturgica del mio lavoro. Da tempo prediligo solo due testimoni di fronte alle mie opere, preferibilmente bambini, in quanto credo che non sia il pubblico a legittimare un’opera d’arte, in special modo quello composto da addetti ai lavori. L’arte è patrimonio dell’intera umanità e noi abbiamo una responsabilità altissima nei suoi confronti. Se accetto di realizzare una performance con un pubblico più ampio è solo per un’esigenza del [glossary_exclude]committente[/glossary_exclude], ma anche in questo caso la scelta di avere un solo spettatore per volta, accompagnato, è una pratica del mio metodo, che privilegia lo spettatore, dandogli la possibilità di fruire un’opera mettendosi a nudo di fronte ad essa, facendone parte».
N.M.: A proposito del tempo, spesso le tue performance si trasfrormano in veri e propri tableau vivant. Che ruolo ha questa “cristallizzazione” della scena?
L.P.: «Compiere un gesto è tanto significativo quanto il non compierlo, questo (il gesto) è parte del linguaggio con il quale il corpo si esprime attraverso una coreografia di forme geometriche che riassumono simbolicamente quell’agire che, anche nella forma pittorica, determina la narrazione. Io vengo dalle pale d’altare, dagli affreschi, dai racconti allegorici e dalle meraviglie che l’uomo, nel corso dei secoli, ha lasciato al prossimo per poter godere della bellezza dell’arte. Come artista che utilizza la performance come unico mezzo espressivo, non ho riferimenti nella storia di questo mezzo, io arrivo dalla pittura, dallo studio della pittura e come tale riassumo in immagine quello che sono le mie scoperte, il frutto del mio mettere insieme argomenti, personaggi e luoghi delle mie costanti ricerche. La fissità è il punto esatto da dove parte o finisce il gesto, l’azione è fatta per chi si annoia, il movimento per chi non ha la pazienza di vedere».
N.M.: Il tempo, lo spazio… il viaggio: un altro elemento fondamentale sia della tua attività artistica che della tua vita…
L.P.: «Il viaggiare è la parabola stessa del cammino, quel cammino che qualcuno intraprende per conoscere, per scoprire. Attraverso i luoghi percepiamo l’uomo e le sue credenze, i sistemi complessi e stratificati del vivere all’interno di identità culturali diverse, la dimensione spirituale di un popolo o di ogni singolo individuo e come i costumi aderiscono ai ruoli e alle cerimonie del quotidiano».
N.M.: In fine due parole sul Brown Project Space che hai aperto nel 2008 a Milano con Luca Francesconi e Valentina Suma…
L.P.: «Brown è stato il primo spazio indipendente nella ricca Milano, ricca di tutto, ma evidentemente non di una risposta concreta allo stato boccheggiante del sistema dell’arte. Dopo un primo periodo con la co-direzione di Luca e Valentina, il progetto ha continuato la sua attività sotto la mia direzione. Siamo stati i primi a pensare a una strada parallela non sottomessa al mercato dell’arte e all’egemonia dei curatori abbagliati dalla luce delle gallerie. Con una programmazione efficace e di qualità, il nostro spazio è diventato un punto di riferimento per la città. Molti altri spazi simili sono nati immediatamente dopo, vedendo nella nostra forza la possibilità vera di una svolta. Da qui la nuova scena indipendente che continua ad arricchire la proposta culturale della città meneghina».