Quante e quali forme ha oggi lo spazio dell’arte contemporanea? Molte e diverse, non solo il più tradizionale white cube modello espositivo per eccellenza, un contenitore asettico capace di divenire materia nelle mani degli artisti che lo hanno usato, manipolato a piacimento e secondo le inclinazioni ideologiche o artistiche. Al di fuori di esso altre forme e altri luoghi hanno avuto e svolgono un ruolo nella ridefinizione dello spazio per l’arte.
Massimo De Carlo perfettamente coerente con questo ultimo pensiero aveva già aperto una galleria collocata negli splendidi ambienti di Palazzo Belgioioso, in pieno centro città all’interno di un cortile elegante. Ma è un viale alberato della città a lasciare uno degli esempi più illuminati di uno stile razionale e borghese, firmati Piero Portaluppi, in cui ha deciso di fissare il suo quartier generale. Il piano interrato (uffici, biblioteca) e il primo piano (spazio espositivo e uffici) sono le aree occupate dal gallerista all’interno della Casa Corbellini-Wasserman. Oggetto di un restauro commissionato allo Studio Binocle e con Antonio Citterio è un tripudio di marmi, legni e elementi architettonici distintivi come la scala elicoidale all’esterno.
La prima mostra è un omaggio all’anno della sua realizzazione, MCMXXXIV (1934), curata da Massimo De Carlo e Francesco Bonami visitabile fino al 18 Maggio, con opere di Thomas Grünfeld, Jannis Kounellis, Sirio Tofanari, Felix Gonzáles-Torres, Yan Pei-Ming, Rudolf Stingel, Adolfo Wildt, Nate Lowman, Josh Smith, Andra Ursuta, Paul Troubetzkoy, Francesco Messina, Kaari Upson, George Condo, Tomoo Gokita, Richard Prince, Luigi Ontani, Maria Lai, Pietro Roccasalva, Alighiero Boetti, Fausto Melotti, Arturo Martini, Antonietta Raphaël, Giò Ponti, Genni Weigman Mucchi.
Un viaggio attraverso il tempo all’interno di stanze ampie e comunicanti che conducono in un percorso libero da cronologie o imposizioni tra le esperienze dell’epoca e quelle più contemporanee. Mappe di possibili geografie che si costituiscono a partire dalle pareti all’ingresso che restituiscono il disegno a tempera del paesaggio della pianura padana che trova continuità negli oggetti esposti. Nel salone si innesca un dialogo temporale tra il vaso in maiolica degli anni venti che riproduce il mappamondo, Le mie terre di Giò Ponti (1891-1979), gli iconici arazzi di Alighiero Boetti (1940-1994) tessuti a mano riprendendo le antiche tecniche tradizionali, con la Mappa Afghanistan (1979) e TBT (2018) di Nate Lowman (1979), composizione con immagini prelevate dalla realtà rimontate tracciando una nuova topografia.
In un territorio così contestualizzato la casa si anima di presenze suggerite da corpi umani e animali, sembianze ibride e astrazioni identitarie. Immagini di santi e temi biblici sono presenti nelle opere di Adolf Wildt (1968-1931) e di Antonietta Raphael (1895-1975). Superfici levigate e vagamente surrealiste di San Francesco in marmo e bronzo e la spiritualità della Concezione come lucide e levigate sono quelle de Il pescatore di bronzo di Francesco Messina (1900-1995), seppur con una resa differente. In antitesi il tormento e la vibrante passione nella bronzea figura femminile di Fuga da Sodoma di Rafhael, della Lupa ferita di Arturo Martini (1989-1947), una fanciulla a carponi che incarna un’indole selvaggia o ancora nella testa di Gino Severini, realizzata da Genni Weigman Mucchi (1895-1969), collocata su uno dei caminetti di marmo.
Una carica e una tensione emotiva che si contrappongono alla rigida presenza di Costante uomo, che era parte delle dodici sculture dei Sette Savi di Fausto Melotti (1901-1986). Un blocco inanimato con il calco di una mano sul cuore, eloquente nella sua resa minimale come espressivo è il soggetto dell’opera di Pietro Roccasalva (1970) inserito in un’atmosfera cupa e intimista.
Se una certa rigidità espressiva è intuibile nel ritratto di Ernst Ludwing Kirchner di Rudolf Stingel (1956), nel corridoio, le stanze si popolano di personaggi più giocosi nella ceramica policroma di Ermestica= SignorBonaventuraArtePolo di Luigi Ontani (1943), ripreso da un fumetto degli anni trenta o fantastici e a tratti grotteschi, nella teatralità delle donne raffigurate da George Condo (1957). La stessa teatralità colta nel profilo della protagonista nella tela Quiet III, di Andra Ursuta (1979) in uno sfondo rosa mentre Tomoo Gokita (1969), costituisce il suo teatro domestico con immagini famigliari in Room Service ma camuffandone il volto non più riconoscibile. Identità nascoste anche nelle figure con falce e mantelli delle tre tele di Josh Smith (1976), in cui la pittura si fa intensa ma ricca di un’energetica paletta cromatica.
Il colore incombe nell’arancione della tovaglia sul tavolo da giardino di Rudolf Stingel (1956) che occupa gran parte della parete dello studio, dove fa la sua apparizione lo scoiattolo di bronzo di Sirio Tofanari (1886-1969), insieme alle ceramiche di Weimar del 1934-40 che trovano la loro perfetta collocazione nella libreria. Animali insoliti si aggirano interrompendo la linearità degli ambienti, la pantera di marmo di Tofanari domina il corridoio e con aria minacciosa afferra la preda imbrigliata nelle sue fauci. Misfit, è invece una creatura ibrida, pavone-canguro-struzzo, dal piumaggio colorato di Thomas Grünfeld (1956) che accoglie lo spettatore all’ingresso.
La storia si raccontata anche attraverso le vicende e i protagonisti dell’epoca con i monocromi di Yan Pei-Ming (1960) raffigurante Hitler e lo sguardo severo della testa di Mussolini di Paul Troubetzkoy (1866-1938) che troneggia nella sala da pranzo.
Prelievi e appropriazioni dal mondo reale nei collage di Richard Prince (1949), nell’accumulazione della carta rossa e nera in copie illimitate fino alle dinamiche degli oggetti e al loro spostamento di significato che gli conferisce una funzione altra, come il portalampada di porcellana di Felix Gonzáles-Torres (1957-1996) o il tondino di ferro con coltello di Jannis Kounellis (1936-2017). Per Maria Lai (1919-2013) è il Muro delle Janas (le fate che abitano le case) di mattoni, cemento e terracotta – per restare perfettamente coerenti con le case – e per Kaari Upson (1972), la mutevolezza del materiale piegato e accartocciato in Habit I, che ammorbidisce l’angolo della stanza.
La stessa mutevolezza che caratterizza gli spazi, iscritta nella sua genesi di casa, ufficio e oggi galleria. Capace di accogliere nel suo contenitore elegante e così profondamente identitario le opere come ospiti che irrompono, spezzano, distorcono o ne assecondano le geometrie, le linee e le architetture, diventando la cornice ideale per nuove scenografie contemporanee.