Quella che state per leggere non è la recensione alla mostra “Roy Lichtenstein. Opera prima”, inaugurata il 26 settembre scorso alla GAM di Torino. Ma una riflessione in vista delle visita che mi piace condividere con voi. In un momento in cui l’arte contemporanea sembra essere stata ridotta ad un mero fenomeno commerciale, infatti, la riscoperta di certi artisti mi riconcilia con questo mondo. E’ il caso, appunto, di Roy Lichtenstein, esponente di spicco della cosiddetta Pop Art americana che non ha mai sopportato troppo quell’aura di esclusività che circonda, anche oggi, l’arte “alta”, rendendola argomento per pochi eletti. Per lui, l’arte doveva recuperare il contatto con la realtà nella forma della cultura popolare. In parole più semplici, potremmo dire che le sue opere – di cui la mostra torinese, in molti casi, propone gli studi preparatori – non sono altro che un elegante sberleffo all’atteggiamento delle borghesia colta, alla sacralità dell’arte intesa come istituzione, come merce e status symbol.
Ecco, per entrare in sintonia con la mostra “Roy Lichtenstein. Opera prima”, curata dal direttore della Galleria d’Arte Moderna di Torino, Danilo Eccher, credo si debba proprio partire da questa chiave di lettura, che vi renderà più decifrabile, spero, il mondo di questo artista famoso per i suoi “fumetti”, ma che, come vedrete, ha una produzione ben più vasta e complessa di quella che si incontra sulle riviste o in molti libri di storia dell’arte. Capirete meglio perché Lichtenstein ha scelto, come sua fonte di ispirazione, i fumetti d’azione e quelli per teen-agers, ma anche le immagini stampate dei cataloghi commerciali o delle pagine gialle.
A tal proposito, peraltro, c’è un aneddoto molto interessante che mi piace condividere con voi e che chiarisce abbastanza la questione. Si tratta di un episodio raccontato da un altro artista Pop, Alan Kaprow, il quale racconta di una loro chiacchierata sul divano di casa Lichtenstein in attesa che le mogli tornassero da un giro in macchina con i figli: «Cominciai a parlare con Roy di come si doveva trasmettere agli studenti il senso del colore. A quell’epoca Roy si stava occupando intensamente di Cézanne. L’auto ritornò e tutti i bambini avevano dei pacchetti di gomma da masticare – Bazooka Double – quella con i fumetti stampati sulla carta. Presi una di quelle carte, la stesi e mi ricordo ancora di avergli detto ammiccando: “Il senso del colore non lo puoi insegnare utilizzando come esempio Cézanne, ma solo utilizzando qualcosa del genere”. Mi guardò estremamente divertito. “Vieni”, mi disse. Lo seguii nel suo atelier, al secondo piano. Alla parete erano appoggiati dei quadri astratti; li spostò tutti e me ne mostrò uno che si trovava in fondo: era un dipinto astratto di Paperino. In un primo momento rimasi senza parole; pochi secondi dopo scoppiai a ridere: era la conferma di quello che avevo appena detto».
Ecco allora che i suoi fumetti, le sue immagini commerciali, ma anche le opere successive, non sono altro che l’innalzamento a forma d’arte dell’immagine (o immaginario) popolare. E anche quando si cimenta nella “rilettura” degli stili, o delle opere, dei grandi nomi dell’arte moderna e contemporanea lo fa perché questi sono diventati ormai dei cliché. E quando ne rielabora dei dipinti – come nel caso di Picasso – lo fa puntando l’attenzione proprio sul loro ruolo di icona popolare. Da merchandising verrebbe da dire.
Forte di una delicata e pungente ironia, in altre parole, Lichtenstein, con la sua opera, affronta temi cardine dell’arte di ogni tempo, con sullo sfondo un interrogativo che lo stesso artista si era posto più volte. «Da sempre – affermava – desideravo conoscere la differenza tra un segno che va considerato arte e uno che non può essere considerato tale». Nascono, in questo modo, quelle immagini che sembrano realizzate con procedimenti meccanici; quei quadri che, a prima vista, possono sembrare «estremamente stupidi» (sono parole sue), caratterizzati da «un uso del colore che dà l’impressione di non avere niente a che vedere con l’arte». Quello che lo interessa, nelle immagini commerciali è, infatti, la capacità degli illustratori di comunicare al pubblico delle sensazioni, mentre i suoi fumetti di guerra, diventano una riflessione sulla «definizione americana di immagine e di comunicazione visiva». Emblematica, in questo caso, l’immagine dell’esplosione di cui, in mostra, si trovano vari studi.
Al di là di quanto spesso si legge, nella sua opera, come in quella di molti altri artisti Pop, non c’è traccia, invece, di una critica alla società. C’è semmai un rifiuto della cosidetta “cultura alta”, a cui l’artista nega il monopolio della qualità. Riaprendo, così, questioni ancora oggi attuali circa cosa debba essere considerato arte, chi ne sia il creatore e quale il suo scopo. Le sue rielaborazioni di opere di altri artisti, invece, ci spingono a riflettere su concetti come il valore, la riconoscibilità o l’originalità di un’opera d’arte. Insomma, nelle 235 opere esposte a Torino – molte delle quali su carta – è possibile ritracciare tutte queste sue riflessioni, ma anche scoprire – con grande piacere – come Lichtenstein sia sempre rimasto un pittore. A differenza di Warhol, ad esempio, non ha mai utilizzato modelli fotografici per i suoi lavori, ma è sempre partito da disegni a mano che non sono – come si è tentati talvolta di pensare – delle mere riproduzioni di immagini commerciali, ma delle loro rielaborazioni, anche molto profonde.
[quote type=”center”]Il disegno è alla base della mia arte. E’ dove prende forma il mio pensiero. E’ una parte importnate della mia pittura. I dipinti sono sempre gli stessi, solo più grandi. Ma non sono del tutto migliori. Quando dipingo non penso. Una certa spontaneità è perduta. Il disegno, invece, ha tracce più interessanti …[/quote]
Roy Lichtenstein