New York, 16 febbraio 2019 – Iniziamo con un pellegrinaggio. A Midtown, al 102 della 54ma Strada Ovest, all’incrocio con la Sesta Avenue, vi era la casa di Mark Rothko, quella in cui l’artista visse fino a quando lasciò la famiglia, nel 1969, trasferendosi nel suo studio sulla 69ma Est dove poi il 25 febbraio 1970 pose fine alla sua vita.
È un pellegrinaggio ovviamente inutile: al posto del fabbricato dell’epoca sorge ora un moderno grattacielo che ospita un Hilton Hotel. Però quasi di fronte c’è lo storico Ziegfield Theatre: sì, proprio quello delle Ziegfield follies a cavallo degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Ma anche qui: il teatro originale, aperto nel 1927, con la facciata che dava sulla Sesta, fu raso al suolo — nonostante le proteste dei cittadini — nel 1966, e poco più di tre anni dopo fu costruito questo secondo Ziegfield come movie theatre, all’epoca il più grande di tutta New York. Dopo una chiusura per ristrutturazione, nell’ottobre 2017 ha riaperto i battenti come grande sala da ballo.
All’angolo opposto all’Hilton, all’incrocio della 55ma con la Sesta, c’è una delle grandi sculture LOVE di Robert Indiana. La fama di Indiana (scomparso nel maggio dell’anno scorso) è quasi esclusivamente legata a questa scultura-logo, replicata un’infinità di volte nei formati e con le destinazioni più diverse, dall’installazione monumentale al multiplo serigrafico fino ad arrivare ai tappetini per i mouse del computer. Pare che, in realtà, l’artista non fosse riuscito all’epoca a registrare i diritti d’autore per l’immagine, e quindi non abbia potuto impedirne usi non autorizzati; in ogni caso, dopo il “prototipo” risalente al 1970, ora esposto all’Indianapolis Museum of Art — ma l’immagine originale era stata concepita nel 1964 per una cartolina natalizia del MoMA —, circa sessanta versioni della scultura sono state disseminate in tre continenti, in vari formati e colori (e in cinque lingue diverse): questa di New York fu realizzata nel 1999.
Poco lontano, sulla 53ma Ovest all’incrocio con la 7ma Avenue, c’è anche HOPE, altra scultura di Indiana realizzata con lo stesso accorgimento grafico divenuto iconico per LOVE: le quattro lettere in caratteri bodoniani grassetto, disposte su due righe e incluse in un ideale quadrato, con la O inclinata verso l’esterno. Creata nel 2009, fu al centro di un progetto ispirato dall’artista che però viveva già in volontaria semireclusione nel Maine: l’International Hope Day. Ogni 13 settembre, data del suo compleanno, una serie di sculture HOPE sarebbero state installate in diverse località del mondo e si invitavano le persone ad andarle a visitare come gesto di speranza in un futuro migliore.
Per inciso, quasi di fronte a HOPE c’è un’opera di un altro maestro della Pop Art che, nonostante le dimensioni gigantesche, rischia di passare totalmente inosservata. Al 787 della 7ma Avenue, nell’atrio dell’AXA Equitable Center — dove hanno sede vari gruppi finanziari, tra cui la BNP Paribas — vi è il quadro probabilmente più grande, quanto a dimensioni, di Roy Lichtenstein: Mural with blue brushstroke, di circa 22×10 metri, completato nel 1986. Fu dipinto con acrilici Magna su diverse tele poi riportate sull’intonaco della parete calcarea dell’edificio: sulla sua creazione e realizzazione (che impegnò due anni di lavoro, dai primi disegni alle maquette fino all’esecuzione finale) esiste un libro fotografico di Bob Adelman, con introduzione di Calvin Tomkins, uscito nel 1987.
Riprendendo il cammino verso nord, sulla 57ma Strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, si trovano due top galleries: la Marlborough (al numero 40) e poco più in là, al 24, la Marian Goodman Gallery. Decido di visitare quest’ultima: la mostra in corso è House & Garden, personale di Richard Deacon, artista inglese nato nel 1949, vincitore del Turner Prize nel 1987, presente a dOCUMENTA IX nel 1992 e alla Biennale di Venezia del 2007.
La galleria è al 4° piano dello stabile: l’ascensore si apre direttamente sullo spazio espositivo — tre sale collegate da un lungo corridoio ai cui lati si aprono diversi uffici — che occupa in pratica l’intero piano del palazzo. Una bella mostra dall’allestimento particolare: si tratta per la maggior parte di fotografie, molte delle quali accoppiate in strutture in legno che ricordano in maniera stilizzata delle case, disposte nella sala grande della galleria a mo’ di piccolo villaggio. Le foto ritraggono particolari colti nella casa e nel giardino dell’artista; disseminati fra le “case” di legno vi sono poi oggetti in ceramica smaltata che ricordano vagamente i tjuringa degli aborigeni australiani, come a rafforzare il legame tra luoghi e natura. Nella terza sala vi sono anche tre grandi sculture, decisamente meno interessanti. Le opere partono dal 2007, ma la grandissima maggioranza di esse è stata realizzata nel 2018.
Mi trovo a due passi da Central Park. Per amore di simmetria, decido di concludere questa mattinata con un altro pellegrinaggio: sulla 66ma Strada Est, al numero 57, c’è la casa dove passò i suoi ultimi quattordici anni Andy Warhol. Questa, almeno, esiste ancora, ed è perfino segnalata da una targa quale Historic Landmark. È un edificio di quattro piani, in mattoni, discreto, quasi anonimo nella generale eleganza dell’Upper East Side.
Involontaria simmetria nella simmetria: solo dopo essere tornato a casa mi viene in mente che è proprio Robert Indiana la persona inquadrata per 40 minuti, intenta a mangiar funghi, nel film Eat di Andy Warhol del 1963.