Ripartire! È l’obiettivo comune che trova tutti d’accordo. Ma c’è un’altra cosa su cui si concorda: giornali, tv, politici di qualsiasi segno e colore, economisti, imprenditori, liberi pensatori chiedono che la burocrazia italiana venga decimata. Si dice da tempo, ma adesso va fatto. O crediamo che l’Italia possa ripartire col freno a mano tirato?
L’amministrazione pubblica è un’amministrazione essenzialmente locale in quanto si presuppone che la struttura burocratica immediatamente più vicina ai cittadini sia quella che meglio e più rapidamente calzi alle loro necessità. Questo è l’assioma sancito dalla riforma Costituzionale del 2001 (L. n. 3/2001) e dal principio di sussidiarietà e decentramento, attraverso cui si ripartono le attribuzioni delle funzioni amministrative tra i vari enti locali e statali.
Per cui per chiudere il cerchio e avere l’efficienza del sistema è a livello locale che si deve incidere ed arrivare. Questo vuol dire che qualsiasi modifica di tale sistema adottata dall’alto deve essere valutata in primis conoscendo molto bene il modus operandi concreto adottato a livello locale e, sulla base di esso, ragionare ‘a ritroso’ fino al sistema centrale, per capire cosa sia necessario cambiare.
Viceversa, il ragionamento di senso opposto, dal centrale al locale, continuerà a produrre nuovi rimestamenti di strutture senza approdare ad un reale snellimento di passaggi, lasciando che le risposte pratiche ai problemi arrivino dai regolamenti di attuazione, se e quando pervenuti, e dalle singole P.A. locali, se e come meglio riterranno procedere, creando ciascuna una propria prassi operativa, a scapito di qualsiasi logica di buon senso o efficienza.
Esempio? A inizio emergenza Covid, Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto, decide di discostarsi dalle linee direttive del Governo centrale e fare tamponi a tutto spiano. Considerata l’evoluzione della curva di contagio in Veneto, a confronto con quella di altre Regioni, la scelta sembra azzeccata. Può essere che per determinate ragioni tale prassi non sortirebbe gli stessi effetti in Lombardia, ma potrebbe anche essere il contrario.
Il fatto è che il Governo centrale, deve valutarlo e dopo decidere, se adottare per tutte le Regioni questa prassi o stabilire una disposizione diversa applicabile a tutte o lasciare libere le Regioni di decidere singolarmente. In questo modo si garantisce un’ottimizzazione effettiva degli sforzi (anche economici) e una maggior efficacia e snellezza operativa della burocrazia, perché verifica a monte le ‘buone pratiche’ amministrative che effettivamente funzionano, sulla base di dati oggettivi.
E per la cultura? Vale anche per lei.
In questo momento l’economia dell’Italia è in ginocchio. Partiamo da ciò che abbiamo: i beni culturali. Solo che per ottenerne un reale profitto, va semplificato drasticamente l’apparato burocratico, altrimenti nemmeno il più abile degli imprenditori italiani può competere con un mercato internazionale – quello dell’arte – dove ovunque la procedura di utilizzo dei beni culturali risulta sensibilmente più snella.
Tutto l’impianto di tutela dei beni culturali si regge sulla nozione di interesse culturale. Ove gli uffici pubblici competenti accertino/verifichino la presenza dell’interesse di culturalità sul bene, esso andrà soggetto alla disciplina del Codice dei beni culturali.
Se il bene è di proprietà privata la legge impone una forte limitazione all’esercizio pieno e incondizionato del diritto di proprietà da parte del suo titolare sulla cosa. Per questo motivo il legislatore pone l’uniformità dell’azione amministrativa a fondamento dei principali provvedimenti di circolazione e conservazione del bene culturale.
Cosa vuol dire uniformità di valutazione della PA? Significa che i molteplici uffici pubblici chiamati a decidere, corrispondenti per funzione, e dislocati su tutto il territorio nazionale, a medesima domanda devono pervenire a identica risposta. Nei fatti però non è detto che ciò avvenga.
Può accadere, infatti, che nelle singole strutture di ramificazione dell’intero apparato burocratico, si creino prassi diverse per emettere un medesimo provvedimento amministrativo. Lo sanno bene collezionisti e mercanti d’arte…
Gli indirizzi forniti dal Ministero risultano ancora generici e vaghi, e in ogni caso probabilmente non sono sufficienti. La situazione generata dal Covid ha portato a galla, evidenziandole, tutte le falle del nostro sistema. Ripartire da quello che stavamo facendo non è la risposta. Se non ha portato a risultati sostanziali prima, lo può fare adesso?
Non serve l’ennesimo decreto, riforma, definizione. In ambito culturale, serve prima di tutto fare una scelta.
A cosa decidiamo, oggi, di dare la priorità? Vogliamo che le nostre splendide opere d’arte rimangano, tendenzialmente, entro i confini nazionali, anche se ciò può significare chiuderli in depositi o caveaux? Oppure vogliamo essere più partecipativi al mercato dell’arte, necessariamente internazionale, “riquotando” così certe opere che possediamo, ma accettando, per alcune di esse, “l’uscita dal territorio nazionale e la conseguente impossibilità di tenere sotto controllo passaggi e trasferimenti” (sent. Tar Lombardia, 29/1/2002 n. 345)?
Parliamo di un mercato il cui valore di vendite, nel 2019, si aggira intorno ai 64 miliardi di dollari, cresciuto di un 62% rispetto a dieci anni fa, i cui protagonisti sono USA, Regno Unito e Cina, e dove l’Italia pesa meno dell’ 1%, confinata in un generico “resto del mondo” nei report di settore (‘The Art Market report 2020’ di Art Basel e Ubs).
Opinione personale a parte, possiamo anche mostrarci cauti di fronte a un mercato globale, i cui indici esorbitanti di fatturazione crescono – guarda a caso – in modo inversamente proporzionale agli indicatori di crisi economica, però, allora, più stringiamo le maglie dei confini nazionali, più bisogna valorizzare quello che si mantiene dentro, cercando di “riquotarlo”.
Se tratteniamo e non valorizziamo, non c’è più mercato dell’arte, per noi Italia. E strozziamo qualsiasi imprenditore italiano che si dedichi alla materia.
Fatta questa scelta, allora sì che il legislatore potrà valutare l’opportunità di una riforma delle strutture, ma sulla base di dati concreti, da acquisire prima. Ad esempio, da un colloquio con l’Ufficio esportazione di Roma, risulta la necessità dell’accesso al sito artprice; la dotazione di lampade di wood; la presenza obbligatoria di un esperto della materia da periziare nella commissione di valutazione; tempo congruo di anticipo per valutare la documentazione informativa sul bene.
Serve essere pratici: decidere cosa fare, chiarire come farlo, creare dialogo tra le parti in gioco.